31 luglio 2013

Residenza con vista. Sull’arte di domani/2

 
Continuiamo il nostro viaggio-reportage alla scoperta dei giovani talenti ospitati in residenza su iniziativa della Fondazione Bevilacqua La Masa. I temi dell’identità, dello slittamento della personalità tra rete e tecnologia sono i più frequentati dagli artisti. Giovani sul serio e anche parecchio interessanti. Ancorati alla realtà e ad un “fare”, senza dimenticare il disagio del presente

di

Rachele Maistrello, Cà Rezzonico. Photo: Stefano Maniero

Siamo a Palazzo Carminati, sede degli studi d’artista dati ogni anno a diversi giovani dalla Fondazione Bevilacqua La Masa, dietro a Campo Santo Stefano. Un fortino della creatività, per accedere al quale bisogna arrampicarsi su una scalinata di 88 gradini, da cui si apre una delle viste più belle sulla Venezia. La prossima artista che incontriamo, dopo i sei di cui si è detto nella prima puntata, più il collettivo Cake Away (cakeawayvenezia.tumblr.com) è Rachele Maistrello, classe 1986. Come una novella Cindy Sherman in terza persona, Rachele racconta similitudini tra i volti del Settecento veneziano raccolti a Cà Rezzonico e i nostri coscritti. Sono amici, conoscenti, persone fermate dentro il museo che la giovane artista ha ritratto come personaggi delle tele esposte, in un’operazione che mixa tempo e identità, con un ottimo uso della fotografia. 
Amedeo Abello nel suo studio

E sulla fotografia e le immagini del quotidiano, raccolte prevalentemente in rete, da siti pornografici piuttosto che dal proprio profilo facebook, da condivisioni con amici o da screenshot di siti vari ed eventuali, anche le pellicole di Amedeo Abello, torinese con laurea allo IUAV, che con le immagini racconta di una particolare realtà, vista spesso al negativo e appartenente ad una cospicua fetta della generazione dei prossimi trentenni: problemi mascherati, euforie piccole, disagio, e la grande capacità di un’autoironia feroce (non necessariamente dell’artista su sé stesso) ma sulla società e il presente che si abita.
Claudia Rossini, Atelier Bevilacqua La Masa, 2013

Sullo stesso stampo “identitario” Claudia Rossini ha sviluppato invece una fascinazione per l’universo delle immagini “amateur” del web, quelle per intenderci degli show cam to cam, nella messa in scena del proprio corpo, talvolta per puro esibizionismo, spesso per soddisfare le proprie inclinazioni, come nell’ormai desueto concetto del “cyber sex”, che avviene quotidianamente tra una sempre più larga fetta di pubblico – adolescenti e adulti – e che tra le sue pieghe nasconde le zone d’ombra della personalità, viste attraverso la lente di un casalingo peep show. Rossini mette in scena il suo personalissimo “red tube”, dove gli abiti vagamente succinti sembrano solo un piccolo particolare tra una distesa di oggetti allegorici, dai ventagli ai pupazzi di stoffa, a raccontare un mondo animato di un ambiente che confonde il rosa e il nero, seguendo anche “antropologicamente” la tradizione giapponese degli “anime-saga”, o dei voyeur in webcam.
Atelier Corinne Mazzoli, Bevilacqua La Masa 2013

E parla di un presente decisamente “alterato” anche Corinne Mazzoli, spezzina classe 1984, che durante gli open studio, in occasione della white night dell’arte in laguna, ha forse catalizzato l’attenzione maggiore, con un dj set di musica noise dove l’ibridazione con un abbigliamento ghetto style, si è confusa con la sua “sala giocchi” in progress, un ambiente dove slot manipolate in base alle esigenze denunceranno la condizione di un gioco d’azzardo patologico. Una riflessione amara e, appunto, distorta su un presente che ha superato la fantasia nei suoi aspetti peggiori di sottomissione uomo-macchina, uomo-nevrosi, e che rende le vittime, in questo caso del gioco d’azzardo, probabilmente più umane e “consapevoli” rispetto a come i media quotidianamente fanno passare. La c in avanzo dei “giocchi” ci proietta in un mondo altro, ci fa precipitare e, allo stesso momento, ci ancora alla realtà di osservatori, increduli per questa sostituzione di realtà. 
Martin Romeo, work in progress per la presentazione all'Art Night

Sul lato opposto Martin Romeo, nato a Carrara nel 1986 e vissuto per diversi anni a Buenos Aires, direttore del Festival veneziano Toolkit, che seguendo la sua passione per l’interattività nella sala ai Carminati racconta di un viaggio ectoplasmatico attraverso alcuni scheletri di valigie in vetroresina, impilati a formare una colonna fino al soffitto. Un’identità transitoria, legata al viaggio, così come Elena Mazzi, reggiana in residenza alla Giudecca, ripropone direttamente sui muri delle scale – ecco la salita “ad arte” – la propria esperienza all’interno del workshop “Building to learn”, promosso dalla Ball State University, in Nepal, a cui l’artista ha partecipato nel 2011. 
Elena Mazzi, Chutara, Kathmandu, Nepal, materiali vari 2011

Vicino a Kathmandu l’artista, durante il viaggio-residenza, ha deciso di occuparsi del Chutara, l’albero sacro al centro del paese, da qualche anno totalmente ricoperto da una piattaforma di cemento che le radici avevano col tempo deteriorato, impedendo alla popolazione di sedersi sul basamento del Chutara e di salirvi per pregare. Un’azione che via via si racconta mentre si sale su, verso il tetto del Palazzo dei Carminati, e verso gli altri artisti, dove Mazzi narra di un rapporto che iniziato con difficoltà e poca “fiducia” nei confronti dello straniero, ha via via coinvolto tutta la popolazione locale, che ha risposto con il recupero partecipato del proprio simbolo. 
Spela Volcic al lavoro nel suo atelier

Enkelejd Doja, nato a Tirana nell’83, laureato in Cinema all’Università di Bologna, successivamente specializzatosi in Semiotica e ora iscritto allo IUAV. Presente negli studi all’interno del collettivo curatoriale Cake Away, intreccia la pratica artistica con quella curatoriale, e si presenta qui in una collaborazione con Špela Volčič, nata in Slovenia nel 1984 e attualmente in corso allo IUAV. 
Ai Carminati hanno scelto di aprire le porte con un progetto comune, che anche stavolta guarda a Venezia, all’estetica degli oggetti trovati, ad una poetica tanto famigliare quanto “aliena” se catalogata o, «di natura variabile». Il riferimento è all’architettura, e alla realtà urbana, alla densità abitativa e ai suoi elementi. E non è un caso che attraverso un cannocchiale puntato sul panorama si possa intravedere qualcosa tra le mura ad occhio nudo impossibile da distinguere. Un oggetto trovato, un oggetto d’identità. Di quelli fatti da qualche bambino, che stazionano in giardini o balconi, forse senza il benché minimo scopo, ma a raccontare di una dimensione. 
Infine Dritan Hyska, nato in Albania nel 1980 studi all’Accademia e allo ISCP di New York, che in occasione dell’Art Night ha realizzato due lavori sulle scale: un’installazione in cui, di fronte a una busta paga in bianco, si poteva sentire una voce meccanica che leggeva la legge sulla sicurezza nei luoghi di lavoro, mentre un secondo progetto era un grande ingrandimento di una immagine manipolata di un palazzo modernista, che occupava un’intera parete della scala dei Carminati. Attraverso l’ingrandimento e la moltiplicazione dei piani si accentuava l’attenzione agli aspetti più formali dell’architettura urbana e ad alta densità abitativa.
Ecco svelata una dimensione dell’arte ben precisa, aderente a questo piccolo ed eterogeneo gruppo di giovani, ognuno lontano anni luce dalle poetiche e dai metodi di costruzione dell’altro, ma accomunati da un’idea dell’arte che fosse possa riscattare anche una dimensione sociale e di “faber”, lontana da sterili concettualismi o dall’idea dell’ “arte per l’arte”, ma vicina ai bisogni e alla temperatura politica di un Paese che se da una parte appare congelato, dall’altra è incandescente di riscatto.

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