14 settembre 2013

Se dico arte tu a cosa pensi?/ 2

 
La rivoluzione digitale non ha solo trasformato la nostra vita, ha cambiato profondamente anche l’arte. Oggi la realtà sembra aspirare a riprodurre fedelmente le immagini e non viceversa. E l’estetizzazione pervade la società, mentre l’estetica pare definitivamente archiviata. Ma a favore di che? Dell’utilità dell’arte? E utile in che senso, dal punto di vista finanziario, o da un versante etico? Concludiamo la riflessione iniziata qualche giorno fa

di

Andy Warhol,Dollar, 1981

Un contesto, quello occidentale, che come sappiamo bene è alle prese con una crisi sistemica molto profonda e che sembra incredibilmente coincidere con l’arrivo, e la diffusione di massa, delle nuove tecnologie digitali e di Internet. Una crisi che ha dato infatti i primi colpi nella prima metà degli anni Novanta del secolo scorso, con l’inizio dell’espansione della rete, per poi esplodere alla fine della prima decade del nuovo millennio, nel momento della massima espansione del digitale. Una crisi che, com’è noto, ha preso il via proprio dalle conseguenze della digitalizzazione dell’economia, che proprio attraverso questo processo si è autoderegolata, finanziarizzandosi, e che sta ovviamente trascinando con sé tutto il resto.
Cos’è accaduto? Perché la digitalizzazione della nostra vita, della nostra cultura e in definitiva del nostro mondo, può essere considerata l’imputata principale della crisi in atto? Tra l’altro dobbiamo considerare che tutto ciò avviene in un Occidente che ha basato tutta la sua identità e la sua storia su un’evoluzione in cui è stata decisiva proprio l’innovazione tecnologica. 
Infatti e appunto, la rivoluzione digitale non è stata una semplice innovazione tecnologica, perché essa ha davvero cambiato molto di quello che siamo, tanto da creare i presupposti per una ri-definizione della nostra identità, singola e collettiva, avvicinando in modo impressionante i piani del reale in cui si è con quelli di cui si è informati, e rendendo plausibili le sovrapposizioni tra questi fino all’estremo di una loro intercambiabilità. Mentre dall’altro lato, e in modo non meno dirompente, ha introdotto nuovi e imprevedibili elementi nelle dinamiche della nostra interiorità. 
Quando mai era capitato qualcosa di simile nella nostra storia in conseguenza all’arrivo di una nuova tecnologia, o anche di una clamorosa scoperta scientifica?
augmented reality

L’arte, come il resto, ha subito gli effetti di questa rivoluzione, trovandosi ad essere collocata in una posizione differente da quella in cui era stata per secoli, compresa buona parte del XX. Un cambio di funzione e di ruolo generato da processi concomitanti e tutti riconducibili al processo di digitalizzazione, e che vanno dall’aniconicità del flusso digitale delle immagini, all’estetizzazione del mondo reale che avviene proprio attraverso di esse. Sono riflessioni che in parte avevo già fatto nel mio “Oltre l’Estetica” (Meltemi, 2007), e che oggi inducono a ulteriori ragionamenti. Non si tratta infatti solo di un cambio di funzione dell’arte, ma prima di tutto di un cambio di funzionalità dell’immagine nel nostro mondo: se prima l’immagine ripeteva la realtà (mimesi), o tentava di crearne una alternativa, oggi è la realtà, proprio lei, che aspira ad essere la riproduzione fedele delle immagini. L’estetizzazione del nostro ambiente consegue proprio da questo tentativo continuo di emulazione che assorbe in modo totalizzante la nostra percezione estetica. 
Quello che era un ambito specifico non solo d’indagine sull’arte, ma anche di una modalità di conoscenza del mondo attraverso di essa, si è di fatto disperso in un contesto talmente ampio e generalizzato da sottrarre definitivamente senso, ruolo e funzioni da lì deducibili. Anche le categorie dell’Estetica che per qualche secolo avevano formato il terreno di analisi comune, di scontro e di rielaborazione del discrimine tra arte e non arte, sono decadute, lasciandoci orfani non solo di un lessico condiviso, ma anche dei concetti sui quali comunque ci siamo formati e sui quali ancora nonostante tutto ci continuiamo a formare.
Perché l’arte rimanesse necessaria in questo nuovo contesto, essa non poteva dunque che assumere ad un certo punto una funzione che ne garantisse una partecipazione utile, che abbiamo detto è essenzialmente di tipo economico, anzi meglio finanziario. Un’assunzione di ruolo che ha trasformato l’opera in un tipo di merce digitale, molto diversa dalla merce culturale descritta da Guy Debord ne “La società dello spettacolo” (1967) e che faceva a sua volta riferimento al pensiero marxista di “Storia e coscienza di classe” (1923) di György Lukàcs, senza dimenticare di passare per quel fondamentale capitolo dedicato a “L’industria culturale” che si trova in “Dialettica dell’illuminismo” (1944) di Theodor Adorno e Max Horkheimer. 
art basel hong kong

In tutti questi testi la natura dell’equivalenza merce-cultura, merce-spettacolo o merce-arte, era basata su un’idea di valore e di scambio di mercato che erano concreti. Oggi un’opera d’arte è decisamente più simile a un prodotto finanziario del tipo dei futures, il cui valore stabilito nel futuro non è però nel caso dell’opera regolato e garantito da nessun contratto, rappresentando quindi un’incertezza maggiore che è riequilibrata dall’upgrade di stato sociale, e forse culturale, che l’acquisizione consente da subito. 
Ma la crisi, paradossalmente causata dallo stesso stabilizzarsi dei cambiamenti causati dall’escalation evolutiva indotta dalle tecnologie digitali, sta mettendo in crisi questa funzionalità. Questo perfetto inserirsi dell’arte nel contesto digitale appare sempre più con chiarezza causa di modificazioni non accettabili del suo senso come del suo ruolo, e non solo nel nostro mondo, ma anche e più semplicemente nella nostra vita. 
Un’insofferenza che ha cominciato ad essere visibile attraverso dichiarazioni, opere e statement critico-curatoriali, che prendono con chiarezza le distanze dal sistema dell’arte e dal mercato come dominus esclusivi delle proprie scelte. Ma soprattutto è lo spostamento di molti artisti, di una parte della poca critica rimasta e di pochi dei tantissimi curatori in servizio, verso la politica, la responsabilità etica e l’impegno sociale, ad essere il segnale più forte di un ri-pensamento del senso e della funzione dell’arte in questo contesto. 
Un ri-pensamento che quindi non vede nella semplice continuità funzionale il contributo dell’arte alla formulazione del mondo, ma che cerca altrimenti di ri-pensarsi come espressione di un bisogno che sia veramente necessario per guardare, conoscere e cambiarlo questo mondo. Proprio in quest’aspetto si trova l’unica continuità possibile tra l’arte attuale e quella del passato. E cioè nel fatto che avevamo, abbiamo e avremo sempre bisogno dell’arte per migliorare il mondo e noi stessi, con la differenza che nel passato la richiesta pretendeva una risposta estetica, mentre oggi l’unica possibile è di tipo etico. 

4 Commenti

  1. Passare dell’eStetica all’etica nell’Arte, oggi, vuol dire avere il coraggio di passare dalla S barrata del dollaro alla S barrata di Lacan?

  2. ma è proprio l’etica soggettiva nell’arte del passato relativo, a farla quotare nella borsa di sotheby o christie’s….poi la vera arte digitale non è il ri-fare il passato(senso-significato-poetica) attraverso macchine digitali,quest’ultime vanno usate proprio per la loro impersonalità scientifica (schelling)le loro specificità tecno-ontologiche,perchè le immagini digitali sono nuovi livelli dell’essere che svelano la nostra realtà mostrandone la im-materialità,la virtualità di origine software,insomma la ricerca vera,digitale-virtuale hà valenze scientifiche non nostalgicamente soggettive-poetiche-etiche.E se nella vecchia arte si poteva parlare ancora di linguaggio, nella nuova digitale-virtuale non è più possibile,perchè è una forma senza contenuto,il suo contenuto è essa stessa,è auto-referente proprio come una immagine fotografica già lo era,oltre che distante e vicina nello stesso tempo (HEIDEGGER)…

  3. Dialogare su questi temi è estremamente complesso perché necessiterebbe, innanzitutto, il dare definizione di parole, termini, concetti per potersi intendere, poi, su di essi.
    Ciò detto – e se non erro – il primo assioma della comunicazione recita che è impossibile non-comunicare.
    Quando un artista espone una propria opera e/o la pubblica in rete, quando fa vedere la propria opera a qualcuno, a un amico, a un gallerista; quando un gallerista appende l’opera che l’artista gli ha proposto alle pareti di una galleria e apre la porta ai visitatori, ebbene, allora l’arte diventa linguaggio nonostante le intenzioni di chi ha prodotto l’opera. E quando il visitatore arriva davanti all’opera esposta e la guarda, andando via porta comunque con sé un senso di ciò che ha visto. Ora, la domanda è: questo senso/significato in che rapporto è con il contenuto originario dell’opera? Il senso/significato è il/un contenuto dell’opera? E (certa) arte contemporanea per quanto tempo ancora ha intenzione di eludere la questione dello sguardo di chi guarda? Ecco.. l’etica dell’arte, per me, sta nel porsi dell’artista/del curatore nel luogo dello sguardo di chi guarda. Finalmente.

  4. per Shannon il creatore dell’informatica,la forma digitale era priva di contenuto,(ma stiamo parlando di macchine digitali?)HEGEL scriveva: il contenuto di una cosa è la cosa stessa,Heidegger comprese che la tecnologia svela un nuovo tipo di essere,MACLUHAN comprese che il medium è il (vero) messaggio,medium và inteso come costituzione tecno-ontologica che si mostra,non come tramite,MARIO COSTA comprese che la macchina digitale comunica principalmente sè stessa,colui che la usa non fà altro che attivare un processo-fenomeno onto-tecnologico,ma il digitale essendo forma vuota di contenuti,comunica-mostra il suo funzionamento,il suo essere fenomeno nuovo che hà a che fare con la FILOSOFIA e con la SCIENZA.La tecnologia digitale è autoreferente,non c’è nessun soggetto se non lei stessa,fenomeno in atto e in potenza,realtà arti-ficiale elettronico-numerica,che và oltre la nostra realtà visiva……

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