11 febbraio 2014

Quadri di un’esposizione americana

 
Anche quest’anno l’American Academy di Roma si consegna ai suoi artisti in residenza per l’appuntamento di “Cinque mostre”. Ne nascono cinque momenti espositivi molto diversi tra loro, collettivi e monografici. Ma tutti con lo sguardo aperto sul presente. Da una riflessione sul tempo al vissuto che uno straniero ha di Roma. Fino alla rielaborazione della classicità e al nodo della religione

di

Concrete Ghost - Reynold Reynolds

Un appartamento continua a bruciare tra le fiamme di un incendio. Gli inquilini sono tranquilli sul loro divano, mentre pareti ed oggetti continuano a liquefarsi. Un uomo guarda la propria compagna dormire nel letto con malinconia, per poi ricoprirla della stessa benzina che si verserà poco dopo addosso. Mentre la donna brucia tra le lenzuola del letto, lui sceglie di mettersi in salvo e, disperato, raggiunge la coppia, ancora placida in salotto, intenta a leggere il giornale. Il soffitto, ormai distrutto, comincia a crollare sotto forma di cenere, molto simile a quella neve epifanica di cui parlava Virginia Woolf in Mrs Dalloway, che lascia i propri spettatori in una sorta di estasi mista a stupore. Inquietanti figure coperte da lenzuola strisciano a quattro zampe sul pavimento, come incarnazioni di una presenza evanescente, di un fantasma concreto. Questi sono alcuni fotogrammi di Burn, videoinstallazione ad opera di Reynold Reynolds, primo impatto con la mostra “Concrete Ghost”, a cura di Christian Caliandro
Concrete Ghost - Giuseppe Stampone

In occasione della nuova edizione della rassegna annuale “Cinque Mostre”, l’American Academy di Roma presenta “Time and again” – a cura degli attuali fellows in residenza e Christian Caliandro – una riflessione ad opera di artisti italiani e americani su quei sistemi stratificati tipici dell’arte del passato, un’articolata indagine sul rapporto fra contemporaneo e antico testimoniata da linguaggi d’espressione eclettici e innovativi. Liberamente tratta da un testo di Giorgio Vasta – «In questo lungo gioco di sguardi (di campi e controcampi, di canti e controcanti) che attraversa lo spazio nazionale si concentra il fantasma concreto ed evanescente di un paese claustrofilico, la grande microscopica capsula temporale da cui non riusciamo a venire fuori» (Giorgio Vasta, Altare della patria, “minima & moralia”, 18 novembre 2011) – la mostra “Concrete Ghost” (la prima di cui ci occupiamo) analizza la condizione di un fantasma dotato di sensi, di corpo, di tensione, di movimento. È ben diverso dal fantasma evanescente portatore di storia e di ricordi: «La percezione dello svolgimento storico è strettamente connessa alla nostra esperienza del tempo. Il modo in cui fruiamo gli oggetti culturali smaterializzati e digitalizzati attraverso i nostri dispositivi è sintomatico dell’immersione in un presente che annulla le dimensioni del passato e del futuro», scrive il curatore nel testo che accompagna la mostra. Il fantasma concreto è nelle creature inquietanti di Burn e nella donna pervasa dai sensi di Secret Life (Reynold Reynolds); è nel cimitero partigiano di architettura fascista di Giuseppe Stampone (Made in Italy e Architettura fascista); è nella vegetazione chimica immersa nello zinco – soggetta a continue mutazioni – di Tony Fiorentino, che rimanda alla Melancholia di Albrect Dürer; è nello spazio in tensione di Marco Strappato e nelle luci nel buio di Catie Newell; è nei dettagli di un panneggio per Catherine Wagner, nel tappeto strappato di Anna Betbeze; è negli Untitled di Hamlett Dobbins e nel pupazzo di Dan Hurlin; nelle forme amplificate di Thomas Kelley e nella poesia visiva di Nanni Balestrini, accartocciata come foglie d’autunno (Paura – desideri/ Sono-fuori-dal-mondo/Caduta-dei-desideri).
Concrete Ghost - Tony Fiorentino e Anna Betbeze 

Con un occhio ai famosi Dance Diagrams di Andy Wharol, per la mostra “Dance Macabre” (la “seconda” del pacchetto “Time and again”) l’artista russa Diana Machulina installa a fianco a diverse scalinate lungo il percorso espositivo gli schemi dei passi come quelli di una lezione di una danza, nei quali piedi scheletrici prendono il posto delle impronte delle scarpe. Condendo brio e leggerezza con un tocco di inquietudine, Machulina riflette sulla doppia anima di Roma, dove reliquie e resti catacombali si confondono con le immagini felliniane de La dolce vita. Da sempre interessata a realizzare lavori nei quali un’apparente gioia lasci spazio ad un aspetto straniante e conturbante per l’osservatore, l’artista indaga in chiave contemporanea la contraddittorietà di una città tanto eterna quanto quel passato che la caratterizza.
Marco Strappato, Untitled (VF 35), 2013 Dance Macabre, Time & Again - Diana Machulina

Nello spazio del criptoportico le immagini di “Histoy Recast” (la terza mostra) incontrano l’esperienza sensoriale di “Lumen”, installazione multidisciplinare e quarta mostra in programma. Attraverso le fotografie di Catherine Wagner, Mimmo Jodice, Marco Delogu, Milton Gendel, Leonora Hamill, Catie Newell, Antonio Biasucci, Sara Van Der Beek e David Maisel, la curatrice Linsay Harris offre un ampio spettro di artisti che raccontano la classicità attraverso un processo di rimaneggiamento, di rilettura (di recast, per l’appunto). In fondo al corridoio, ecco “Lumen”: Loretta Gargan crea degli inginocchiatoi di nuova generazione, nella stessa scala di quelli visibili in una chiesa, sui quali però crescono piccole piantine, simbolo di rigenerazione e rinascita; davanti agli occhi del “fedele” in contemplazione non un’immagine sacra, non un ostensorio, ma un’esperienza luminosa e sonora ad opera di Catherine Wagner, Eric Nathan e Thomas Kelley. In un momento storico in cui il nuovo Papa Francesco invita a vedere la luce come metafora di cambiamento, gli artisti spronano lo spettatore ad intraprendere una nuova esperienza di riflessione, nella quale presto si perdono i legami con la realtà e si rimane sommersi e immersi in un non luogo fuori dal tempo.
Concrete Ghost - Thomas Kelley

A concludere il percorso, la suggestiva mostra dal titolo “Found Realities”, in cui Peter Bognanni, Thomas Kelley e Catie Newell ricostruiscono lo studio del fittizio archeologo Ignatz Von Eckhart. Lo spazio, in fondo al giardino dell’Accademia, è totalmente trasformato dalla presenza degli oggetti appartenuti allo studioso. Ogni cosa è ferma all’ultimo momento in cui ha visto il proprietario per l’ultima volta: disegni e bozzetti giacciono accanto ai prototipi di stravaganti forchette e cucchiaini; vecchi cassetti d’archivio contengono pagine ingiallite e pezzi d’inventario; sulla scrivania, accanto alla macchina da scrivere, ancora una tazza accompagnata da una bottiglia d’alcool appena iniziata. Questo gabinetto scientifico di ricordi stratificati, di oggetti strani e fuori dal tempo, traggono spunto da documenti e annotazioni archeologiche atte a costruire un laboratorio in debole equilibrio tra realtà e finzione.

LASCIA UN COMMENTO

Per favore inserisci il tuo commento!
Per favore inserisci il tuo nome qui