06 aprile 2014

Indiana, ma non pop

 
Prabhavathi Meppayil viene da Bangalore e da una famiglia di orafi. Nel suo lavoro, realizzato con gesso, riporta la minuziosa meticolosità di questa tradizione. Niente di più lontano, quindi, dal chiasso tardo pop di tanta arte indiana contemporanea. Scelta un anno fa Massimilano Gioni per la sua Biennale, è ora all’American Academy di Roma con la mostra Nine seventeen. E con tanti rimandi ad altri artisti

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Nel bianco – il colore del silenzio – le linee affiorano timidamente, poi tornano ad inabissarsi nella materia, cancellate e nuovamente ritrovate. Puntini e trattini, invece, danzano ravvicinati in una mappatura di segni reiterati che creano impercettibili giochi di luce e ombra, presenza e assenza, maschile e femminile. 
Prabhavathi Meppayil (è nata nel 1965 a Bangalore, India sud-occidentale, dove vive e lavora) sceglie il gesso come materiale privilegiato a cui affidare la sua poetica di esplorazione dell’astrazione. Una ricerca di armonia, fondamentalmente, in cui l’azzeramento del monocromo riserva, tuttavia, delle sorprese. 
In Italia il suo lavoro è stato presentato per la prima volta da Massimiliano Gioni alla 55esima Biennale di Venezia. Nine seventeen all’American Academy di Roma (fino al 12 maggio), invece, è la sua prima personale. Gioca sul numero nove: tanti sono i dipinti che includono Untitled, un’opera composta da nove pannelli. 
Meppayil proviene da una famiglia di orafi e il suo studio è all’ultimo piano di un edificio che ospita laboratori di oreficeria. L’affermazione della tradizione artigianale, quindi, nel cuore di una metropoli come Bangalore, che è tra le più industrializzate del subcontinente indiano. «Lei si siede sopra il pannello steso per terra e con gesti ripetitivi traccia segni» – spiega il critico Peter Benson Miller, Andrew Heiskell Arts Director all’American Academy – introducendo il lavoro dell’artista che si avvale degli stessi attrezzi con cui gli orefici realizzano i raffinatissimi gioielli destinati ai ricchi corredi nuziali. Per Prabhavathi Meppayil, che non fa disegni preparatori, ma lavora direttamente con la materia con pazienza e meticolosità, è una sorta di meditazione. Il tempo, diluito in ritmi e momenti che sfidano l’affanno aritmico della quotidianità circostante, è un elemento altrettanto importante.

L’artista procede in due direzioni differenti che tendono allo stesso rigore. Da una parte i pannelli, coperti da strati di gesso, vengono incisi in solchi in cui vengono incastonati i fili di rame (talvolta d’oro) poi ricoperti da uno strato successivo di gesso. Emergeranno, riaffermando la loro presenza all’interno dell’opera, dopo che la superficie verrà liberata con la carta vetrata dallo strato di gesso. L’altro intervento, invece, si rifà ai pattern della tradizione decorativa dell’arte orafa indiana, assumendone codici che si traducono in linguaggio universale proprio per la vocazione all’astrazione geometrica. «Il processo è veramente molto importante per me» – afferma l’artista – «quasi più del risultato. Definisce il mio lavoro. Ho trovato il modo di coniugare avanguardia dell’occidente con forme, materie e procedure indiane». 
La scelta stessa del gesso, del resto, appartiene alla pittura murale di cui in India ci sono straordinarie testimonianze che vanno dal periodo preislamico con Ajaṇṭā, passando per i palazzi del Rajasthan, le stilizzazioni simboliche dei Warli del Maharashtra, fino alla vivacità cromatica delle pareti delle case dipinte dalle donne dell’altopiano di Hazaribagh. Ma Meppayil non si lascia tentare dalle scene del Ramayana, da pavoni ed elefanti, figure mitologiche e divinità dell’olimpo indù, piuttosto punta all’essenza guardando – più o meno consapevolmente – all’esperienza dei minimalisti. A questo proposito Benson Miller cita due artisti della stessa generazione: l’inglese Bridget Riley, esponente dell’Op art, e Robert Ryman statunitense legato al minimalismo e al concettuale. «Per me – aggiunge – i pannelli di Prabhavathi richiamano anche le ‘superfici acrome’ di Piero Manzoni, quell’idea di ridurre l’immagine all’essenza del materiale».

Insomma, esattamente l’opposto dell’overdose visiva prodotta dall’immaginario della cultura pop indiana. Senza dimenticare che l’India ha, come sottolinea lo stesso Benson Miller, anche una lunga storia di contatto con Le Corbusier, Calder ed altri artisti occidentali. 
Un mondo molto sofisticato che ruota, in particolare, intorno alla famiglia Sarabhai, industriali di Ahmedabad (Gujarat). I fratelli Gautam e Gira Sarabhai fondarono anche il Calico Museum of Textiles (primo e unico museo del tessuto in India), ma il loro nome rimane legato prevalentemente ad artisti come Alexander Calder, che con la moglie Louisa arrivò ad Ahmedabad nel gennaio 1955, e qui realizzò vari lavori tra cui mobiles e gioielli. Molti furono gli ospiti illustri dei Sarabhai, tra cui John Cage, Merce Cunningham, Henri Cartier-Bresson, Robert Rauschenberg e anche Le Corbusier che nella città progettò due luoghi istituzionali e due abitazioni private (una è Villa de Madame Manorama Sarabhai del 1951). Tracce che Prabhavathi Meppayil ha trovato nel suo percorso di studentessa, quando tra il 1993 e il 1995 era in residenza al Kanoria Centre for Arts di Ahmedabad. 

Parlando ancora di referenze nel suo lavoro, è lo stesso Massimiliano Gioni ad associare il nome dell’artista indiana a quello di Agnes Martin. «Sono molto onorata – afferma l’artista umilmente – lei è straordinaria. Certamente ci sono molti riferimenti al suo lavoro, ma il mio approccio è completamente diverso». Per Peter Benson Miller è interessante soprattutto il contrasto tra il lavoro delle due artiste. «Agnes Martin parte da un sistema molto disciplinato, una griglia che traccia a matita, in cui è evidente il segno della mano che sbaglia. Anche Meppayil parte da un sistema molto rigoroso attraverso il quale emergono tutte le imperfezioni, dettagli che lei realizza con il filo che entra ed esce nel gesso. Da una parte aggiunge, dall’altra sottrae». 
Anche il processo di ossidazione del rame definisce l’opera, il suo cambiamento nel tempo, in base all’esposizione e agli agenti esterni. Anche il colore, quindi – rosso, bruno, verde – s’insinua nel bianco. «C’è sempre un ritmo musicale nel tuo lavoro. È così?», la domanda viene spontanea. Lei sorride, prima di rispondere. «Magari inconsciamente. La gente me lo dice molte volte. Il ritmo dipende, forse, dalla qualità della materia. Ad ogni modo, soprattutto nei due lavori realizzati con gli attrezzi da orafo, per me c’è l’assenza del suono».
Un’esperienza silenziosa che è la dichiarata reazione alla spettacolarizzazione fin troppo presente nell’arte contemporanea.

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