12 aprile 2014

Il favoloso mondo di Thomas Grünfeld

 
Se Villa Croce chiama, l'artista tedesco risponde. Come? Si reinventa la logica del museo d'ambientazione, facendo della suggestiva villa genovese il contenitore di un imprevedibile melting pot materico e formale. Tra animali fuori norma, mobili inutilizzabili e puro citazionismo estetico. Due piani per costruirsi un habitat ad immagine e somiglianza. Dove anche le convenzioni hanno un che di stupefacente

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Per i puristi dell’italiano il termine “domesticoso” sarà solo l’ennesimo neologismo poco digeribile e anche un po’ troppo cacofonico. Ma noi che ci occupiamo di arte contemporanea ogni tanto qualche deroga linguistica ce la permettiamo, andando in brodo di giuggiole se quel neologismo cade come manna dal cielo su Thomas Grünfeld (Opladen, 1956), poliedrico artista tedesco fino all’undici maggio one man di Villa Croce con la retrospettiva Homey
Domesticoso, traduzione del titolo anglofono che arriva dritta dalla penna del direttore artistico Ilaria Bonacossa; in questo caso è la parola chiave in grado di “aprirti un mondo”, non ha propriamente il valore dell’aggettivo “domestico”, è qualcosa che sa di domestico con un accento molto più morboso. In pratica è la “crasi non crasi” che definisce il clima creato dall’artista nella storica villa genovese, luogo dove la (s)personalizzazione ambientale è collusa con un’estetica costantemente sul crinale tra recesso ed eccesso. Da buon nordeuropeo però, Grünfeld mantiene anche nei propri eccessi una compostezza da uomo razionalmente ossessivo, misurato nel rapportarsi e nel rapportare il pubblico verso lavori densi di richiami, strenuo promotore di una maniera disciplinata in ogni realizzazione. 

Avere trentadue anni di carriera da esporre e cominciare con un lavoro eticamente ed esteticamente controverso, ma sicuramente emblematico, i Misfits (nome per quattro differenti specie animali imbalsamate combinandone corpi e teste) è come decidere di partire in quinta. Calare la provocazione senza un minimo di training preparatorio, attirarsi fin da subito qualche antipatia insieme alle ire degli animalisti più intransigenti, quelli ad esempio che hanno odiato il Maurizio Cattelan, signore dei piccioni imbalsamati alla Biennale di Venezia 2011, e continuano a guardar male le formaldeidi di Damien Hirst. Diversamente dall’artista italiano e da quello inglese, Grünfeld ha fatto della tassidermia un motivo scultoreo d’ineguagliabile espressività, e le sue immobili bestiole sono lì a dimostrarlo: animali veri in pose vere, creazioni di fantasia, ma anche prodotti provocanti e provocatori attraverso cui l’artista sfoga una controllata onnipotenza plasmante, che lo rende libero di produrre un bulldog francese con testa di agnellino o corpo di capra. Rispetto a Cattelan e Hirst, a Grünfeld va dato atto d’aver bonificato almeno una piccola parte del cinismo insito nell’uso dell’imbalsamazione, mischiandolo con un cosciente interesse plastico/materico e con l’effettivo cattivo gusto di un esemplare raro da wunderkammer. Esemplare che poi non vuol essere nemmeno tanto “wunder”, poiché la sua innata meraviglia è stata barattata dall’artista con la normalità di passeggiare liberi in mezzo a quattro incroci geneticamente assurdi, disposti come carezzevoli animali da compagnia di una famiglia bene. 

Lì per lì lo si nota poco, ma anche il grande quadro in feltro Nottingham, appeso sopra il camino, serve ad assecondare la collocazione paciosa dei Misfits, completando la ricomposizione di un’atmosfera assolutamente “frugal-chic”. È il fascino discreto della borghesia secondo Grünfeld, sbandierato dapprima ben disponendo un paio di quadri in feltro incorniciati come si conviene alle abitazioni “in”, e perseguito al piano superiore con altri lavori, tra i quali Boodle’s: tela verde prato, finto stemma araldico dipinto al centro, cornice massiccia, mensola che sembra la citazione in terza dimensione post-moderna di quella dipinta da Giovanni Bellini nella Pietà conservata a Brera. E come preso dall’esigenza di dover comminare una precisa dottrina ad incalcolabili quarti di nobiltà, stilizzato all’interno dello stemma spunta l’elemento cristiano della “mandorla”, quella di derivazione bizantina nata per contenere l’immagine di Cristo. 

Che l’ambientazione borghese sia latentemente ancorata a retaggi religiosi sembra confermarsi nella moltiplicazione trinitaria di una pallina da cricket + passerotto imbalsamato (MCC), mentre più di una certezza è l’aperto richiamo dell’artista a Richard Artschawager, presente nella ricercata ibridazione tra oggetto-scultura dal valore puramente estetico e oggetto di design con esigenze funzionali. Ibridazione che in un’opera banalmente ricercata come Dr. Pauly se possibile risulta ancor più secca di quanto accada con Boodle’s, ma anche essenzialmente più credibile nell’impiego di una struttura che con le sue limitate dimensioni e la sua semplicità è chiamata a standardizzare – se non proprio a rendere un prodotto di sintesi – canoni ornamentali già di loro sufficientemente standard. Ancora più intenzionata a deformare la linea di confine che divide design e scultura è la destrutturazione di poltrone e divano-letto vintage anni Sessanta-Settanta, disposti in un’installazione unica dove l’osservazione meticolosa del valore geometrico-materico-cromatico necessariamente calpesta l’originaria destinazione d’uso. 

Trentadue anni d’attività che iniziano coi Misfits pare giusto si concludano con un lavoro altrettanto immediato e incisivo come Heimspiel, dodici scatti porno-soft raccolti in una perfezione decorativa adatta allo studio di un professionista metropolitano, disarmonici quanto le tassidermie a causa del loro erotismo ossessivamente pseudo-voyeuristico vestito del più perfetto e generale rigore espositivo. Stoccata finale al lifestyle come borghesia comanda, che non può far altro d’accasciarsi su sé stesso. Touché.

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