24 aprile 2014

L’intervista/Mustafa Sabbagh La fotografia è un atto violento

 
Così afferma Mustafa Sabbagh, nato in Giordania, nomade per vocazione. Che ha studiato con Richard Avedon, diventando fotografo di moda e di dive come Kate Moss. Ma la sua fotografia è soprattutto venata di psicologia e al tempo stesso molto fisica”. Ecco come si racconta in occasione di uno strano vis-à-vis con Matisse

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Allestimento della mostra di Mustafa Sabbagh da MLB home gallery Ferrara (foto Manuela De Leonardis)
Fuori dagli schemi di certi tòpos della fotografia di moda, nel lavoro di Mustafa Sabbagh (Amman 1961 – padre palestinese e madre italiana – vive e lavora a Ferrara) irrompe – piuttosto – la parte emotiva. Sabbagh scopre e ricopre i suoi modelli, tracciando un percorso visivo in cui l’antinomia è come la sigaretta accesa. Modulo, essa stessa, nella scala delle proporzioni fisiche e psicologiche che contengono estasi, ossessioni, paure, eccessi. Sempre, e comunque, nel tentativo di intercettare la bellezza in tutte le sue forme e, forse, per riportare la visione onirica in una cornice di ipotesi di realtà. Nel maggio 2012 la mostra Memorie liquide al Museo Boldini, in cui il fotografo dialogava con i dipinti dell’interprete della Belle Époque, ha avuto il triste primato di essere chiusa dopo due giorni, a causa del terremoto che colpì l’Emilia-Romagna rendendo inagibile anche Palazzo Massari. Sempre a Ferrara, a Palazzo dei Diamanti, nel 2013 Mustafa Sabbagh è stato invitato a realizzare degli scatti durante l’allestimento della mostra dedicata a Zurbarán. Ora, a pochi passi dallo splendido palazzo rinascimentale che ospita le opere di Henri Matisse, Maria Livia Brunelli – direttrice della MLB home gallery – propone la mostra Mustafa Sabbagh. Burka moderni. Un dialogo inventato con Matisse (fino al 4 maggio 2014). 
«Un dialogo che è anche lo specchio delle diverse epoche in cui vivono i due artisti – scrive la direttrice anche in veste di curatrice della mostra – mentre Matisse, come reazione a un periodo carico di tensioni e guerre, cerca di distillare la bellezza dal reale, creando sinuose figure femminili, esaltandone colori e sensualità, Mustafa, dopo anni di lavoro nel patinato mondo della moda, mette maschere nere come la pece, plumbee come pneumatici, a uomini e donne». Abbiano incontrato Mustafa Sabbagh a Ferrara.
Mustafa Sabbagh - Un dialogo inventato con Matisse 2014 (stampa lambda opaca su carta fotografica applicata su alluminio)
Partiamo dal dialogo con Matisse.
«In realtà più che il dialogo ho cercato una specie di scontro. Matisse, infatti, rappresenta il suo periodo ed io il mio. Un periodo che è più cupo. Non parlo tanto di crisi economica, quanto di crisi culturale che credo si voglia affrontare in termini di numeri e non di concetti. In questo il compito del creativo – personalmente non mi ritengo un artista, sono un fotografo fino in fondo – è di far riflettere. Per questo ho realizzato appositamente un lavoro in cui ho scattato a colori, eliminando però completamente il colore. Una forma di sfida tecnica anche tra me e me. Del resto il lavoro spesso si fa per se stessi, come specie di purificazione, di ragionamento tra noi e la società. Però cambiare il mondo non è mai stato il mio intento, perché in un certo senso mi piace nel suo complesso, anche se ci sono tante cose che non vanno. Partendo dai difetti – che amo davvero, perché sono l’elemento che ci rendono unici – ho cercato di mascherare, una sottolineatura di quello che succede nel quotidiano. Oggi si pretende da tutti di essere perfetti, l’idea del “buon selvaggio” di Rousseau non si è mai evoluta. Ci si deve svegliare con l’alito buono, avere la famiglia perfetta come in una nota pubblicità, tutti biondi e sorridenti… In realtà ci svegliamo tutti un po’ bruttini, anche perché non ci sono più i ritmi naturali. Ecco, ho ragionato su questo. La società ci propone delle maschere, la donna, poi, deve avere 42 o addirittura 40 anni al massimo. Queste sono le maschere che sono più difficili da combattere. Non ho fatto altro che esasperare questo concetto». 
Mustafa Sabbagh - Burka moderno 2014 (Stampa lambda opaca su carta fotografica cm 50x40)Mustafa Sabbagh - Burka moderno 2014 (Stampa lambda opaca su carta fotografica cm 50x40)
Invece la serie Burka moderni?
«Nel mio lavoro parlo di essere umano. Il nero è il momento storico. La mia è un’idea sociale del colore. Ho sentito come un dovere mettere il nero nel lavoro. Anche il fatto di collocare le fotografie non una accanto all’altra, ma di schiena una con l’altra, esplica il concetto della convivenza, dell’essere costretto a vivere insieme senza poter condividere e guardarsi. Ci troviamo, poi, nello spazio di una casa-galleria dove c’è una convivenza forzata sia con lo spettatore che con l’opera. È la vita coatta che accade anche nella società attuale. Culture che arrivano e si mischiano tra loro. C’è anche questo riferimento nel lavoro: la Madonna nera, l’Africa, il Medio Oriente, il Giappone… sono andato a pescare pochi elementi nelle varie culture, ricorrendo però a materiali di uso quotidiano che diventano icone. Ci sono corone che non sono corone… La sigaretta è l’unico elemento sempre presente che fa parte di una scelta precisa. La rappresentazione del vizio contemporaneo ha due obiettivi, la sigaretta è come la coca-cola, si trova ovunque. Inoltre è la rappresentazione di un tempo reale. La brevità del consumare il tempo che viene fermato attraverso il fumo». 
Mustafa Sabbagh - Un dialogo inventato con Matisse 2014 (stampa lambda opaca su carta fotografica applicata su alluminio)
Un passo indietro al tuo passato: arrivi in Italia per studiare architettura, quando scatta l’amore per la fotografia?
«Ho sempre fotografato, ricordo che da ragazzino – avrò avuto sei, sette o otto anni – andai a casa di una mia zia ad Amman e tirai fuori dal cassetto una Polaroid. Chiesi a mia zia il permesso di scattare una foto e da quel momento non ho mai più lasciato la fotografia. Non credo neanche che si tratti di passione, piuttosto penso che certi linguaggi ci appartengano. La mia lingua madre è la fotografia. Quanto al rapporto architettura-fotografia, entrambe hanno a che fare con l’uomo. Quando mi sono iscritto all’università non sapevo veramente cosa mi interessasse. Per caso  mi interessava l’architettura che, comunque, ha due cose in comune con la fotografia: la progettualità – in fotografia mi piace progettare, c’è molta ricerca – e anche il modo di studiare per raggiungere l’obiettivo. È come amare due cose, due persone, ma in modo diverso. La fotografia, comunque, per me è stata un’esigenza».
Dalla città dove sei nato, Amman, a Venezia per studiare architettura. Invece la scelta di vivere a Ferrara?
«Prima di venire in Italia avevo frequentato per un anno la facoltà di Ingegneria a Pontiac nel Michigan, Stati Uniti. Dopo pochi mesi, però, mi resi conto che non mi interessava. Mio padre, a quel punto, mi disse che visto che avevo comunque perso l’anno avrei potuto fare un giro in Europa. In Italia andai a trovare la mia nonna materna – mia madre è italiana – che è di origine slava, ma viveva a Trieste e qui mi sono fermato. È stato un altro amore. Mi innamoro spesso delle cose, degli spazi. Anche se poi ho molto conflitti, perché quando si ama si litiga spesso. A Ferrara sono arrivato agli inizi degli anni Ottanta per una storia d’amore. Mi sono innamorato anche della città che è anche il mio armadio. Oggi le nuove generazioni sono privilegiate, perché se decidono di cambiare città prendono con sé uno o due hard disk, un computer, un po’ di vestiti e hanno il mondo in mano. Noi, invece, avevamo i libri stampati, i dischi poi i cd… era tutto molto fisico e quando ci si spostava non si poteva portare tutto con sé. Era necessario lasciare quello a cui si era affezionati. Io sono cinicamente romantico. Dopo Ferrara sono stato a Milano, sono andato a New York, Amsterdam, Berlino, Vienna, Londra… ma il mio armadio è qua».
Mustafa Sabbagh - Un dialogo inventato con Matisse 2014 (stampa lambda opaca su carta fotografica applicata su alluminio)
Per anni hai “visto cosa vestiva l’io”. “Prima mettevo il vestito sopra, ora lo metto dentro”, hai affermato a proposito della tua carriera di fotografo di moda. Quale è il tuo approccio quando fotografi modelle-icone come Kate Moss?
«Il potere ce l’ha il fotografo che può rendere bello o brutto qualunque personaggio. Comunque non amo fotografare i personaggi, ma le persone. Uso molto il linguaggio del corpo. Il calore che si trasmette attraverso il palmo di una mano. Quando si riesce a trasmetterlo, allora le persone si fidano ciecamente. La trasmissione fisica – l’odore, il calore – è molto più incisiva perché non è mai controllabile e avvicina molto più di una frase, che può essere di educazione, cultura, furbizia. Si crea un rapporto a volte amoroso, altre erotico o anche di conflitti, ma è importante che venga fuori la reale natura delle persone. Naturalmente ci sono giochetti e malizie per creare tensioni in più, se chi deve essere fotografato è troppo rilassato; o chiacchiere, un caffè se, invece, la persona è tesa. C’è molta psicologia». 
Hai affermato di essere sempre presente nelle foto che scatti. In qualche modo ritieni autoscatti tutte le fotografie che realizzi?
«Sì, mi fotografo continuamente. Non come persona, ma perché faccio parte dell’umanità. Quindi anche tutte le sfaccettature della persona che fotografo – sia belle che brutte – fanno parte di me. Ma anche perché il soggetto – l’effigiato, il fotografato – in quel momento diventa uno strumento, perché voglio arrivare ad un concetto mentale. L’autoritratto non è solo un qualcosa di fisico, si può fare anche con un pensiero. Quindi proietto sul soggetto i miei incubi, i miei sogni e lui diventa lo strumento per realizzarli. La fotografia, alcune volte, è un atto molto violento. Non si ruba l’anima, ma si mischiano gli animi».
A Londra hai studiato fotografia.
«Veramente fotografavo già, ma lì ho incontrato un grande fotografo – Richard Avedon – con cui ho lavorato come assistente per un paio d’anni. Non amo molto parlare di Avedon, perché per me è come parlare della mamma, o di un affetto così grande che mi sembrerebbe di contaminare. E poi non mi piace la bellezza riflessa. Il suo insegnamento, comunque, si vede nel mio essere dogmatico». 
Manuela De Leonardis


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