13 maggio 2014

Il banale nell’arte

 
La banalità popola la nostra vita. E se l’arte si appiattisce su questa non diventa altrettanto banale? Il tema, già discusso nel passato, oggi si ripropone in una prospettiva diversa, visto che l’arte si propone essa stessa come una forma di realtà. Cerchiamo di capire il nuovo scenario con questo saggio, di cui vi proponiamo la I parte. Che si confronta con la difficoltà a definire che cosa sia l’arte e con il post modernismo. E va oltre

di

Mark Wallinger, A Real Work of Art

Dando per scontato che il banale è un attributo che non difetta a molte circostanze del nostro vivere quotidiano, è logico dedurre che anche l’arte ne sia dotata a sufficienza. Tanto per fare qualche esempio, sono senz’altro banali affermazioni del tipo – non ci sono più le mezze stagioni, ed è altrettanto banale desiderare di essere milionario, come allo stesso tempo non è meno banale dire – la salute viene prima di tutto. 
Ma cos’è che invece nell’arte si può affermare come senz’altro banale con la stessa sicurezza? 
Un paesaggio dipinto? Ma perché dipinto, o perché paesaggio? Oppure un ritratto fotografico? Perché genere antico, o perché oggi inesorabilmente inflazionato dalla pratica del selfie? E perché non potrebbe essere banale un video, o l’ennesimo readymade, come l’inevitabile site specific? E, certo, non possiamo dimenticare di citare tra le possibili banalità, l’immancabile performance autolesionista. 
Naturalmente tutto può essere banale, come tutto può non esserlo, quindi ciò che è banale nell’arte dipende. Certo dipende, ma da cosa? 
Nigel Warburton, un filosofo estetologo inglese, in un suo saggio intitolato La questione dell’arte (2004, Einaudi), dopo aver per tutto il libro osservato e sezionato il concetto di arte attraverso i diversi tentativi di darne una qualche definizione, partendo dal formalismo di Clive Bell e dall’espressionismo di Robin G. Collingwood, passando per la generale impossibilità al definire di Wittgenstein e la teoria istituzionale di George Dickie, per arrivare fino alle definizioni storico-intenzionali di Jerrold Levinson, con grande realismo e una certa dose d’ironia dice «la mia ipotesi è che ‘arte’ sia indefinibile in quanto questa è l’ipotesi più plausibile in base ai dati a disposizione». E subito dopo fa anche l’esempio concreto di come sia impossibile trovare anche solo una somiglianza tra il cartone di Leonardo da Vinci conservato alla National Gallery di Londra, A real work of art di Mark Wallinger e una fotografia Film still di Cindy Sherman. In effetti, non solo non c’è alcuna somiglianza, ma direi che tra i tre è difficile riuscire a trovare anche solo una connessione di senso, anche se evidentemente esiste quella correlazione culturale, preliminare e a posteriori, nonché quell’attribuzione istituzionale, che appunto le tiene tutte sotto la denominazione e il concetto di arte.
Leonardo, Cartone di Sant'Anna, particolare

Naturalmente, se è difficile definire cosa sia arte e cosa non lo sia, ne consegue una altrettanto seria difficoltà a stabilire principi generali e condivisi grazie ai quali dare giudizi qualitativi su di essa. Eppure anche qui, allo stesso modo di come riconosciamo un’opera d’arte senza l’ausilio di una definizione, continuiamo tranquillamente a giudicare, privilegiando a seconda dei casi le qualità estetiche dell’opera o, come capita sempre più spesso, concentrandoci sul contenuto e il portato di senso. Naturalmente il banale è ravvisabile grazie ad entrambe le tipologie di giudizio.
Jean Baudrillard, in un brevissimo saggio del 2007, finito di scrivere pochi mesi prima della sua morte, dal titolo Perché non è già tutto scomparso?, dice qualcosa anche a proposito dell’arte e del banale: «È per la stessa ragione, per essersi confusa sempre più con la banalità oggettiva, che l’arte, smettendo di essere diversa dalla vita, è divenuta superflua». Quindi, secondo il filosofo francese, la coincidenza con la banalità della vita comporta un’inevitabile banalità dell’opera d’arte.
È un’affermazione, questa della banalità della nostra esistenza, che naturalmente lascia perplessi. Anche se a questo proposito è interessante notare che banale è una parola che proviene proprio dal francese ‘ban’, che indicava un proclama del signore feudale, da cui deriva anche l’italiano bando. Da ‘ban’ si passa poi a ‘banal’, qualcosa che appartiene al feudatario e che per concessione si estende a tutto il villaggio, divenendo proprietà comune. In altre parole corrisponde al nostro ‘luogo comune’ ed anche al ‘commonplace’ degli inglesi. La banalità oggettiva della vita di cui parla Baudrillard potrebbe dunque corrispondere a questo qualcosa che appartiene a tutti, e che quindi essendo noto a tutti è appunto definibile come banale. 
Jean Baudrillard

Ma la vita è davvero oggettivamente banale? 
Questa è una di quelle grandi domande, che la distanza ormai sempre maggiore dal postmoderno ha permesso di riportare al centro della riflessione, così come accade per quelle che insistono sulla realtà. Ed è proprio attraverso quest’ultimo aspetto, quello della relazione dell’opera d’arte con la realtà, più che di quella con la vita, che ci avviciniamo alla natura, banale o meno, dell’arte attuale. Ovviamente tra vita e realtà c’è un’inevitabile continuità, anche se non si può affermare con altrettanta sicurezza che tra le due ci sia sempre una sovrapposizione completa e definitiva. Ma in ogni caso, se nel passato l’immedesimazione tra arte e vita era stato un leit motiv soprattutto dell’approccio interpretativo romantico, e dei retaggi successivi, oggi l’arte sta invece dimostrando una decisa propensione verso la realtà, e non nel senso dell’ennesima ripresa della rappresentazione realistica, ma piuttosto consistente nella necessità di un suo determinato stare nella realtà, che non secondariamente implica una partecipazione alla configurazione di quest’ultima, che se non è sempre e propriamente di tipo morfologico, sicuramente lo è di senso. Una condizione che prescinde dunque dagli effetti dell’interpretazione successiva e che si costituisce come dato di fatto in sé.
Cindy Sherman – Untitled Film Still #21

 
Tornando alla realtà, naturalmente questa può essere banale né più né meno di come può esserlo la vita. E a questo proposito si deve anche dire, che un approccio conoscitivo e di corretta relazione con la realtà non può prescindere dall’utilizzo di quello che definiamo senso comune, qualcosa che dunque non è molto lontano da quel luogo comune sopra citato. 

2 Commenti

  1. Interessante Raffaele. Io a banalità accosterei sempre la parola intrattenimento.
    Per quanto quasi tutta l’arte della nostra storia soprattutto cristiana, sia stata adoperata quale mezzo di indottrinamento, ancor prima di propaganda politica, pseudo culturale, di stato, fino a diventare puro intrattenimento, divertissement e oggetto d’arredamento senza nessun altro scopo che quello di riempire i bei salotti. Quando vengono a mancare i valori, è il contenitore “tempo” che si fa banale, superfluo, da riempire e intrattenere necessariamente. Il nostro tempo è evidentemente il massimo apice della banalità conosciuto nella storia. Ma di quali valori stiamo ancora parlando? I valori sono quelli trasmissibili, culturalmente ancestrali ripetibili e condivisibili dalla freschezza generazionale. I valori dell’arte sono svuotati da oltre un secolo continuamente proprio da questa mancanza di trasmissione dei saperi, delle ricerche ed esperienze in una spasmodica illusione di poter innalzare il proprio epitaffio artistico quale unica e imprescindibile “verità”. I valori non sono “la” verità, sono esperienze dell’uomo che hanno saputo sfiorare l’Eternità. Che ci avvicinano ad un mistero, che potremmo chiamare fascino, incanto inarrivabile e per questo imprescindibile. Nell’arte è proprio la distanza con l’eternità ad essersi lacerata, accorciata sempre di più, in un Hic et nunc sempre più nauseante e insopportabile, tanto da dover aggrapparsi ad un intrattenimento necessario quale ultimo valore salvifico possibile.
    Sul perché rifiutiamo l’eternità per vivere di piccoli, infinitesimali spasmi, dovrebbero chiederselo prima di tutto gli artisti.

  2. interessante anche il tuo commento, giovanni. senza esserlo anch’io vorrei citare il famoso “dio è morto” per notare che anche l’arte non se la passa bene in quanto ad incarnazione e veicolo di valori che possano ampliare la nostra visione della vita stessa, oltre la banalità quotidiana.
    ridurre tutto ad arte, può essere stata un’azione dirompente 100 anni fa, oggi ne paghiamo le conseguenze in quanto non è seguita una ricerca così forte a livello sociale e filosofico, per rendere veramente la vita di tutti “artistica”, ovvero degna di elevarsi oltre la sfera bestiale e banale della tribù.

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