16 giugno 2014

La lavagna Senza Parole. Ma con immagini

 
Senza Parole. Ma con immagini

di Ernesto Jannini

Straniamento o contemplazione. Due approcci diversi, ma ugualmente efficaci per entrare nella dimensione creativa dell'arte

di

Ci sono autori che con acume ed ironia evidenziano il lato tragico della nostra cultura, le sue lacerazioni e disconnessioni profonde: come Tony Oursler, per esempio, con i suoi Innesti psicotici (attualmente alla galleria In Arco di Torino).
Come negare quel senso di deformazione, di anamorfosi che aleggia nell’aria, che Oursler coglie benissimo: una disconnessione profonda, psicotica, della realtà, nella quale siamo immersi, e che non appartiene soltanto a quel “singolo” individuo, colto nella fragilità della sua esistenza che può diventare clinica, ma riguarda un po’ tutti: i sistemi organizzati, le lobbie, i governi,  coloro che detengono il “potere” e che si nascondono sotto la parvenza di una “sana” razionalità. Potremmo richiamare alla memoria Michel Foucault e il suo concetto di “biopotere”, che entra nelle fondamenta della vita stessa attraverso il controllo di desideri, manipolazione del corpo; oppure le lucide e ancora attualissime analisi di Ronald Laing, il grande psichiatra scozzese, La politica dell’esperienza o L’io diviso e, come faceva lui, chiederci: «Quanta razionalità è occorsa per sganciare le bombe su Hiroshima o su Vukovar nel 1991, nella Slavonia, muovere ventimila uomini e trecento carri armati per assediare, saccheggiare e uccidere migliaia di civili compresi i malati presenti nell’ospedale cittadino?».
Stiamo parlando della psicopatologia della vita quotidiana, degli squilibri psichici che comportano l’alterazione dell’esame della realtà, la mancanza di “insight”, come dicono gli inglesi: vale a dire quella forma di immediata intuizione che dovrebbe indurre a non imboccare le strade della follia, del delirio, di lucide allucinazioni, definite dagli psicologi o psichiatri, “sintomi espansivi”, e che nel linguaggio comune chiamiamo guerre, devastazioni, stupri,violenze di ogni genere.
Come dimenticare, poi, gli effetti perversi dovuti all’opera quotidiana dei canali mass-mediatici che, con i loro carichi d’impulsi sonori e visivi, sottopongono la mente ad una pressione costante, ad una elaborazione, essenzialmente inconscia,di una infinità di dati. Ritorna, quindi,l’annosa, ma sempre attuale  questione, del rapporto tra  la “realtà” e la “mente”, il suo equilibrio, le sue alterazioni, i rimedi. 
Ma ritorniamo all’arte. Cosa c’entra l’arte in tutto questo? Oursler, o altri autori, direbbero che c’entra appieno, poiché l’artista gestisce e governa una massa infinita di dati-esperienza che, trasportati nelle forme felici dell’ “insight”, si trasformano in rappresentazioni artistiche. La mente psicotica naviga tra frammenti, affoga nei dettagli, deforma; diversa è la mente attiva che nella dimensione dell’arte si espande, è olistica, sinfonica, tende ad unire, piuttosto che a separare.
Qualcuno ha detto che l’artista è colui che sa navigare all’interno della sua “follia”,  che il processo creativo altro non è che una continua  interazione  tra la mente e la realtà, in funzione di un nuovo equilibrio, al quale si è dato il nome di armonia, bellezza o, se si preferisce, colpo di genio, “Aha!Experience”, per usare ancora un’espressione inglese. Cézanne parlava di amalgama tra mente e natura. La mente dell’arte è una mente più profonda, che ingloba quella razionale; una mente le cui coerenze non passano attraverso i principi di causa ed effetto. È la dimensione espressiva dell’arte che consente di ritessere di continuo i termini di una dinamica di equilibrio e conquistare  un’altra angolazione da cui guardare il mondo; più esattamente: per ri-crearlo. È il processo di ricostruzione della “realtà” che passa “anche” attraverso l’arte.
Il pensiero comune, che si appoggia sulla visione positivista della realtà, crede in una realtà indipendente dalla coscienza, e pensa all’arte come qualcosa di distaccato dal reale senza immaginare che, lungi da essere una raffinata fuga dal reale (anche se lo può diventare), quello dell’arte è il risultato di un processo profondo che, condotto con serietà, può infondere e dare forma ad un’intera civiltà. 
Pare proprio che per riconquistare una percezione limpida delle cose, che ci consenta di andare un po’ più nel profondo, bisogna ricorrere a nuovi o antichi espedienti. Questo processo passa anche attraverso il distacco, lo “straniamento”, per usare un termine brechtiano, mediante l’utilizzo di una tecnica operativa, antica o nuova -come nel caso di Oursler -il quale, per riprendere alcune sue parole, opera “un guasto nella cultura estetica”. Ma la reintegrazione della coscienza divisa passa pure per la contemplazione. Ci sono alcune Pitture o Spettacoli, spettacoli veri e propri che si muovono su una lunghezza d’onda differente: come quello dello Slava’s show che da anni va in giro per il mondo.
Al Piccolo Teatro di Milano, Slava, il mitico clown attore e la sua compagnia, ha riproposto la sua grande fiaba. Lo spettacolo è un elogio del silenzio, un trionfo del gesto, del ritmo, del colore, della festa, dell’happening (attenzione non è concepito per il piccolo pubblico, almeno non soltanto). Senza la parola, la messa in scena ne guadagna, e l’opera si fa più “aperta” come direbbe Umberto Eco. Non c’è nulla di roboante o di concettoso, nessuna verbosità, ne altisonante retorica. Solo gesti e colori e il “silenzio della musica”, per usare un ossimoro. L’opera di Slava, che va ben oltre il recinto del teatro tout court, si avvale dell’essenza e di antichi trucchi, nonché di dispositivi tecnici, come Oursler stesso, del resto; ma all’opposto di quest’ultimo, il clown ci invita ad abbandonarci alla “suspension of disbelief” del vecchio Coleridge. Il suo spettacolo è pronto per consentire di effettuare il gran salto verso il mondo poetico: come il mondo dei mimi, in cui il minimalismo linguistico restituisce tutta intera la dimensione contemplativa allo spettatore, senza per questo essere meno partecipativa o interattiva. 
In tal modo il mito dell’interattività propugnato da alcune poetiche contemporanee, trova la sua giusta, ma relativa, collocazione nell’universo creativo, mentre il silenzio dello sguardo, che non si avvale di parole, di concetti o di proposizioni di alcun tipo, riattiva la dimensione misteriosa della bellezza.

1 commento

  1. Notevole l’articolo di Ernestoche condivido in pienezza.
    Come un agricoltore attraverso l’esperienza della terra e del cielo, semina attende e crea “giardini”, l’artista tesse nell’odierno nuove esperienze interiori di equilibri positivi. Ossigena in modo terapeutico il mondo, guastato da frammenti di ego, con vibrazioni poetiche di primitivitá contemporanee, ricostruendo bellezza nel tuffo del mistero interiore. La serietá e la profonditá dell’operazione dall’impasto materico passa alla contemplazione infondendo nuove dimensioni di cui l’uomo ne è assetato.
    Luciana Soriato

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