03 luglio 2014

L’Intervista/Margherita Moscardini e Jo Thomas Contemporary Agorà

 
Riaprire un edificio chiuso, senza farvi entrare pubblico. Un paradosso aggirato, in occasione della sesta edizione di Contemporary Locus. Che riporta a Bergamo lo spazio dell’Ex Chiesa di San Rocco, aperto 24 ore al giorno, fino alla fine di luglio. Margherita Moscardini e Jo Thomas ci raccontano la genesi di una nuova “piazza” cittadina, dove “genius loci” non fa rima con “polvere”

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da sinistra: Jo Thomas e Margherita Moscardini

Quando mi è stato raccontato che, un anno fa, l’ex Chiesa di San Rocco è stata data “in uso” a Contemporary Locus con la clausola di non potervi portare pubblico all’interno, a causa della sua instabilità, ho pensato che spesso le amministrazioni comunali o chi per esse, si divertono a scherzare. Come è possibile dare in concessione uno spazio per una mostra –perché è in fondo di questo che si tratta- e non far mettere piede  nello spazio ai visitatori?
Margherita Moscardini, con Jo Thomas, ci sono riuscite grazie alla cura di Paola Tognon e ad una serie di partner – l’architetto Francesco Valesini e l’Impresa Poloni, oltre a ingegneri e costruttori, che hanno permesso di fare di San Rocco una nuova “piazza” di Bergamo. Ecco come raccontano quest’esperienza.
To San Rocco with Love, 2014, veduta parziale dell'intervento. Courtesy Contemporary Locus e l'artista. Photo credits Mario Albergati

Margherita, hai raccolto in pieno quello che penso sia lo spirito più profondo dell’arte: materializzare una condizione “impossibile”. Credo che con il tuo intervento a San Rocco tu abbia attraversato lo spazio non solo fisicamente, ma anche sfidando il tempo, creando un’ipotetica “freccia” che ci permette di entrare nella storia di un luogo e, non in ultimo, di vederne un’altra prospettiva.
«San Rocco è un luogo pubblico chiuso da 80 anni e completamente compromesso dall’incuria. Questa è stata un’impresa, proprio per la quantità di vincoli da affrontare affinché il luogo fosse reso rapidamente visibile, accessibile, pubblico e sicuro. Per se stesso e per chi lo visita. Per riaprire San Rocco era inevitabile la costruzione di una struttura per la messa in sicurezza, e io ne ho fatto il mio intervento. Era importante innanzitutto che il mio lavoro con Jo Thomas non facesse di San Rocco uno spazio espositivo, lavorando invece sul suo stesso piano di realtà. E così è stata sposata l’idea di realizzare ad arte un ponteggio da cantiere. È un oggetto cavo e percorribile che attraversa la ex chiesa disegnando un cuneo. Calza la soglia d’ingresso, attraversa l’ambiente principale e si incastra poggiando sul davanzale di una finestra per proiettarsi in esterno sulla piazza. I materiali da cantiere (tubi metallici, morsetti, reti di protezione e tavole) sono stati prelevati dal loro uso consueto e modificati in relazione al disegno. Proprio in virtù dei vincoli spaziali su cui è progettata, la struttura costringe San Rocco aperto, visibile, accessibile, praticabile e illuminato come una piazza, notte e giorno, fino alla fine dell’evento, quando sarà smantellata. Ho accolto un groviglio di condizionamenti e svolto un’equazione, che ha risolto le urgenze strutturali, i vincoli e le misure di sicurezza». 
To San Rocco with Love, 2014, veduta parziale dell'intervento. Courtesy Contemporary Locus e l'artista. Photo credits Mario Albergati

Altra cosa che mi ha molto colpito è il senso di instabilità che pervade, nonostante la sua “armatura”, la tua installazione: gli scalini che la compongono sono stretti, lo spazio dopo qualche passo diventa ambiguo, perché non è troppo stretto e permette ancora movimenti, eppure in qualche modo ti avvolge in maniera quasi inquietante. Richiama la sensazione che si ha entrando in luoghi pericolosi, dismessi – come è San Rocco appunto – dove manca il terreno sotto i piedi, dove sembra che da un momento all’altro qualcosa possa capitare.
«È così, il soffitto può crollare, gli intonaci cadere, parti del solaio cedere. La precarietà del luogo è reale, e se dici che condiziona l’esperienza del visitatore, allora il mio intervento funziona davvero come dispositivo. C’è stato un unico sopralluogo prima del progetto: rapido, collettivo e già quasi esecutivo, in cui si valutavano i punti deboli, i cedimenti strutturali, le superfetazioni recenti e le stratificazioni passate. Sembravamo una commissione chiamata a valutare rapidamente danni e misure tempestive da prendere per mettere in sicurezza un sito colpito da un sisma, bombardato o rovinato dal tempo. Da quel momento la condizione tutta esclamativa dell’urgenza, ha mantenuto una tensione alta fino alla fine». 
Che cosa è per te San Rocco, come lo interpreti? 
«È innanzitutto un luogo abbandonato: uno spazio che da chiuso, privato (alla città) diventa immediatamente pubblico. Si spalanca improvvisamente alla città come succede alle palazzine sventrate da un sisma, dove il crollo delle facciate svela in sezione gli ambienti arredati e gli oggetti personali, come a Colonia durante la seconda guerra mondiale, L’Aquila ancora oggi dopo il sisma del 2009. Ma se oltre a luogo violato (dal tempo, dall’incuria) San Rocco è anche una ex chiesa, allora io penso che i luoghi di culto esprimano la loro massima forma proprio nel momento del rito collettivo, quando risuonano. L’architettura del culto è una grande cassa spesso progettata per risuonare. In questo senso l’intervento di Jo Thomas è per me una sollecitazione affinché questo spazio esprima appunto la sua massima forma. E per questo non vedo soluzione di continuità tra il mio oggetto, l’intervento di Jo, il perimetro dello spazio ed il tessuto della città. Contemporary Locus 06 non è una mostra, ma un’azione temporanea che riconnette bruscamente uno spazio (esiliato) al suo contesto. E lo fa nel modo più completo possibile. San Rocco torna pubblico senza filtri: l’accesso libero 24/24, senza porte, senza vigilanza, le luci con funzione crepuscolare che si comportano come il resto dell’illuminazione della città, la struttura che si legge come la biforcazione del vicolo, che attraversa lo spazio, lo penetra e spunta sulla piazza. San Rocco si spalanca come una piazza. Diventa pubblico sotto tutti gli aspetti. La struttura è certamente provvisoria, è un ponteggio da cantiere, e il senso di instabilità di cui parli è legato alla forma, che consente di accedere ed attraversare lo spazio trasversalmente (è una diagonale che cerca di guadagnare più spazio possibile) ed occuparne diverse altezze. Al visitatore sono offerti punti di vista che neanche in condizioni di “funzione ordinaria” dello spazio avrebbe colto».
Qualcuno ha detto anche che, nonostante si sia coperti dalle grate a 360 gradi, la sensazione è quella di una mancanza di sicurezza. Sei d’accordo?
«Di certo non è confortevole: pedate ed alzate dei gradini sono strette, richiedono attenzione, la struttura sale ripida e si restringe progressivamente per terminare a zero sospesa nel vuoto a diversi metri di altezza. Ma sulla sicurezza non ho dubbi: l’Impresa Poloni ha una storia importante in questo settore specifico. Il pericolo è tutto del posto nudo, e come dire, è tutto civile (personale e pubblico), qua, in questo momento storico».
To San Rocco with Love, 2014, veduta parziale dell'intervento. Courtesy Contemporary Locus e l'artista. Photo credits Mario Albergati.

Dal tuo punto di vista, te la saresti immaginata così? Tu lavori in condizioni di grande “difficoltà”, riesci sempre a mantenere fede – all’atto pratico – al progetto delle tue installazioni? Che margine ti dai nella modifica, quando si tratta di realizzarlo? 
«Ogni progetto a cui lavoro è profondamente condizionato dal contesto, nei metodi, i materiali, l’oggetto di indagine. Ci sono interventi che finiscono per staccarsi molto dal risultato che mi immagino all’inizio. Dipende anche dal tempo a disposizione: lavoro spesso a progetti a lungo termine. E non era questo il caso. Qua il mio intervento era la condizione stessa di apertura, accessibilità, visibilità del luogo. La forma doveva essere più chiara ed efficace possibile, e tenere conto dei materiali da cantiere disponibili. Non c’era un grosso margine di interpretazione del disegno, e l’impresa è stata tanto efficiente da riprodurlo perfettamente. Di certo sulla scelta iniziale di rendere San Rocco percorribile notte e giorno come uno spazio pubblico a tutti gli effetti, ecco, su questo non potevamo negoziare. Modificare la forma avrebbe compromesso la sostanza».
To San Rocco with Love, 2014, veduta parziale dell'intervento. Courtesy Contemporary Locus e l'artista. Photo credits Mario Albergati.

Jo, cos’hai pensato quando hai visto San Rocco per la prima volta?
«La prima volta che sono entrata qui ho pensato che è un posto incredibilmente delicato, nonostante il peso della sua storia».
Come concepisci un tuo lavoro? So che disegni molto prima di comporre l’intervento sonoro, ma qualche ghost-track suoni già nella tua mente, ancora prima di entrare negli spazi in cui poi interverrai.
«Prima di arrivare a San Rocco non avevo una ghost-track in mente, anche se ho varie idee di come potrei usare lo spazio e da quali tecnologie potrebbe essere composto il lavoro all’interno dello spazio. La prima volta a San Rocco davvero ho sentito questi toni molto delicati e l’abbondanza di suoni dall’esterno. Ho pensato sarebbe stato importante catturare all’interno del lavoro queste caratteristiche, mettendo anche nel sound design un’atmosfera rapida, di gesti in movimento».
To San Rocco with Love, 2014, veduta parziale dell'intervento con Jo Thomas. Courtesy Contemporary Locus e l'artista. Photo credits Mario Albergati

Ci racconti il perché di questo intervento?
«Nasce dal desiderio di lavorare sulla storia della chiesa. Il design acustico è stato molto importante per me, la sua disposizione e proiezione precisa nello spazio. Ho creato il suono di un antico organo a canne e anche un coro immaginario di voci, pensando alla chiesa come luogo per riunioni e musica. Ho inoltre lavorato seguendo i cambiamenti fisici della luce. Poi c’è l’installazione di Margherita [i due progetti non sono stati concepiti insieme n.d.r.] che funziona come una scala sonora, e riflette le sonorità. Volevo creare qualcosa di speciale e unico per lo spazio, una nuova memoria sviluppata a partire dalle tracce dell’antico. È stata una bella esperienza lavorare a Bergamo».

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