28 luglio 2014

L’altra metà dell’arte

 
Incontro con Stefano Dugnani, milanese e un tempo artista. Che ha lavorato al fianco di alcuni poveristi come Luciano Fabro e Giulio Paolini. Ma quella strada non faceva per lui, così ha deciso di dedicarsi alla produzione di opere per altri artisti: adulti, maturi e giovanissimi

di Manuela Valentini

di

Stefano, raccontaci come e quando hai cominciato a lavorare nel settore dell’arte.
«Ho cominciato alla fine degli anni ’80 quando, allievo di Luciano Fabro, ho svolto contemporaneamente il ruolo di assistente di galleria e assistente di alcuni artisti che frequentavano la galleria Stein di Milano. Tra loro c’erano i poveristi, ma non solo. Inoltre, cercavo di condurre la mia carriera da artista facendo riferimento soprattutto allo spazio di Lazzaro Palazzi».
E oggi di cosa ti occupi invece?
«Da una quindicina d’anni a questa parte mi occupo di produzioni per opere d’arte contemporanea. In pratica, aiuto gli artisti a realizzare i loro progetti. Il mio laboratorio si propone non solo come supporto tecnico, ma anche concettuale».
Quindi possiamo definirti anche curatore?
«Direi di no, anche se una parte non secondaria del mio lavoro consiste nell’aiutare l’artista a mettere a punto un progetto fondato su principi teorici saldi, perché anche l’apparato teorico deve essere coerente. Non oso mai interferire sul senso del lavoro altrui, certo però se qualcosa non funziona, la segnalo».  
Chi si rivolge a te generalmente?
«Prima lavoravo quasi esclusivamente con artisti affermati per lo più poveristi, come ti dicevo sono stato assistente di Luciano Fabro, di Giulio Paolini, di Mario Merz, di Jannis Kounellis e di altri. Quando ho iniziato la mia attività ho cominciato a lavorare invece con i miei coetanei e con artisti della generazione successiva. Ho lavorato molto anche con Mario Airò per esempio, con Liliana Moro, con Diego Perrone e Pietro Roccasalva, ma devo dire che quando mi capita di avere a che fare con i miei coetanei o con  i giovanissimi sono molto stimolato, forse più che con gli storicizzati, perché con questi ultimi spesso il mio intervento si limita ad un’assistenza tecnica».
Gli artisti emergenti invece cosa richiedono?
«Ti coinvolgono di più, non solo dal punto di vista tecnico, ma anche concettuale. Normalmente si rivolgono a me con un’idea dell’opera e sempre a me spetta il compito di capire se può essere  fattibile. Spesso accade infatti che il progetto, pensato magari in un determinato materiale, non sia adeguato alla realtà, perciò cerco di trovare delle soluzioni per modificarlo coerentemente con le intenzioni originali e quindi di concretizzarlo».
Per quanto riguarda la realizzazione dell’opera, te ne occupi direttamente o ti affidi a terzi?
«Dal punto di vista delle specifiche tecniche mi occupo un po’ di tutto: lavoro il ferro, il legno, eseguo meccanizzazioni e formature. Invece, se si tratta di dover fare delle operazioni molto complicate, mi rivolgo a degli artigiani di fiducia o comunque del luogo».
A proposito della tua collaborazione con gli artisti poveristi, cosa ti è rimasto della lezione appresa allora?
«Ci tengo a sottolineare che all’epoca facevo l’artista. In ogni caso, quel periodo mi ha insegnato a rapportarmi con istituzioni pubbliche come musei e biennali. Anche la mia esperienza in materia di allestimenti di mostre internazionali credo derivi da lì, visto e considerato che allora ero solito viaggiare tantissimo. Dal punto di vista artistico i poveristi hanno rappresentato per me un punto di riferimento, invece dal punto di vista tecnico credo di aver appreso di più dal mestiere di produttore che ho intrapreso successivamente, cioè nel momento in cui ho dovuto iniziare a prendermi cura del progetto a 360 gradi».
Che genere di opere realizzavi quando eri artista e come mai hai smesso? 
«Realizzavo prevalentemente oggetti e installazioni, ma ormai la mia esperienza può dirsi terminata. Semplicemente, fare l’artista non era il mio mestiere».
A parte tutto, immagino comunque anche questa esperienza ti sia stata utile per condurre la tua professione di oggi, è così?
«Sicuramente sì. Credo sia stata per me molto importante dal punto di vista della formazione, perché ancora oggi mi permette di comunicare con altri artisti con lo stesso linguaggio. In pratica è come se oggi avessi gli strumenti adatti per comprendere le loro esigenze, guardiamo in un’ottica comune».
Per caso ti occupi anche di fund raising?
«No, purtroppo non è di mia competenza. Il mio apporto è centrato sull’essenza dell’opera, non sulle sue possibilità produttive».
Perché “purtroppo”?
«Perché una persona in grado di fare fund raising in un momento di crisi come questo è sempre molto utile e ben accetta».
Tu hai avuto la fortuna di lavorare con artisti di quasi tre generazioni: sessantenni, quarantenni e ventenni. Quali sono le problematiche dei giovani d’oggi rispetto ad un tempo?
«Una mancanza che ho notato nei giovani che passano nel mio studio è la difficoltà nel recepire la storia recente dell’arte contemporanea. Il passaggio delle consegne fa molta fatica ad affermarsi – e questo secondo me riguarda un po’ tutti i lavori che ruotano attorno all’arte – a causa di una disorganizzazione non tanto del sistema italiano, quanto piuttosto degli italiani».
Insomma mi sembri felice di lavorare ‘dietro le quinte’.
«Ad essere sinceri non è che mi interessi poi molto! Per me è più che sufficiente ottenere il riconoscimento da parte di chi mi ha dato la commissione, con il quale tra l’altro spesso è facile si venga a creare una bella complicità. Anzi, generalmente cerco di lavorare con artisti di cui ho stima, perché quando si va d’accordo i progetti riescono anche meglio. Con gli anni è nato un ottimo rapporto con Mario Airò e Diego Perrone per esempio, tant’è vero che con loro condivido anche il laboratorio».
Al momento a cosa ti stai dedicando?
«Sto lavorando alla realizzazione di alcuni progetti proprio di Airò e Perrone, poi sto creando una grossa maquette con dentro un’olografia per Annie Ratti».

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