30 luglio 2014

Musei con lentezza. Salvatore Settis reazionario contro il “turismo-lampo” dell’arte. Mentre la stampa si accorge del sovraffollamento delle istituzioni

 

di

Thomas Struth - Audience 13 - 2004 - c-print - cm 178x276,5
Alzi la mano chi non si è mai indignato di fronte ai turisti che aspettano di avere un dipinto libero dalla folla per fare a loro volta la proprio fotografia al quadro o, ancora di più, il proprio selfie con esso. Passato il momento dello sdegno, «Perché non è così che si guarda un’opera», a nostra volta abbiamo replicato la medesima azione. Cosa resta dell’opera, della visita al museo, dell’arte? Un feticcio raccolto in pochi secondi. Se ne era accorto Baudrillard in tempi non sospetti, quando ancora gli smartphone non esistevano e la condivisione passava ancora attraverso le foto delle vacanze, ma già i musei erano affollati, già si generava turismo con le immagini, già si era proiettati in una mappa simbolica della propria presenza nei luoghi dell’arte e della cultura più importanti di tutto il mondo. Accade davanti ai monumenti e anche i fronte alle sciagure -come non pensare alle frotte di turisti accorsi al giglio nell’inverno 2012, per immortalare loro stessi a poche centinaia di metri dal relitto della Costa Concordia?.
Il discorso oggi viene ripreso da Salvatore Settis, in un intervento su La Repubblica, che dedica ampio spazio alle folle nei musei, e ad un tesoro che continuamente viene fotografato, postato, smembrato in particolari e dunque consumato.
Il decreto Artbonus di Franceschini, passato a legge solo due giorni fa, tra gli articoli ha anche la possibilità di fotografare liberamente all’interno dei musei, e Settis è solo l’ultimo degli indignati che condanna una legge che – secondo lo studioso – anziché tutelare i Beni Culturali, promuove il turismo dell’ignoranza: «Un’occasione di businnes non è un’esperienza di vita; circola nei palazzi del potere la stolta ipotesi che un manager vale per principio più di uno storico dell’arte», si legge tra le colonne e il riferimento è ovviamente anche all’autonomia gestionale che potranno avere i venti grandi poli museali italiani, se passerà a legge la Riforma del MiBACT. «La colpevole insistenza sul turismo come ragione ultima delle cure dovute al nostro patrimonio trascura il solo punto essenziale: quel patrimonio non è dei turisti, ma dei cittadini. L’Italia su questo fronte ha diritto di primogenitura, ma pare decisa a rinunciarvi», chiude Settis. 
Più vicino invece a un discorso sull’educazione è Antonio Natali, direttore del più frequentato museo italiano: gli Uffizi di Firenze. Intervistato da Dario Pappalardo, spiega: «Non credo alle visite a numero chiuso o a tempo: quando uno entra in un museo ha bisogno del suo tempo. Si tratta di cultura, deve crescere il gusto e diminuire il conformismo». Eppure il conformismo nei musei c’è, eccome: è il conformismo della massa che, riprendendo Settis, ha bisogno di segnare il territorio della propria presenza (viene in mente quel film di Carlo Verdone, Viaggi di nozze, dove la coppia di burini in vacanza a Firenze si sciroppava alternativamente musei e discoteche per mettere un croce ai to do del tempo libero).
E allora che fare? Chiudere con le selfie? Troppo tardi. Soprattutto se significa, dice Natali, «salvare un ricordo sentimentale, la testimonianza di una sensazione. Se invece la nostra realtà si traduce nello scattarsi una foto facendo gesti sconci davanti alla Venere del Botticelli, allora il museo diventa il teatro di un dramma che distoglie l’attenzione di chi vuole “vedere” i quadri. È sempre un problema di educazione», chiude il direttore.
Rispondendo così, implicitamente anche a Settis: il patrimonio culturale dei cittadini italiani può, e deve, essere condiviso anche con australiani, giapponesi, indiani e americani. Il sovraffollamento dei nostri tesori è parte integrante dell’epoca della comunicazione, e nel grande calderone del mondo e dei suoi rituali c’è anche la maleducazione e la strafottenza del prossimo che affolla le sale. Dovremmo suggerire un ingresso al costo del biglietto più una buona dose di dignità e onestà intellettuale. Ma nel frattempo non si può puntare il dito su chi cerca, con i mezzi disponibili e con tante pecche certamente, di rilanciare un intero comparto, così come sulle folle oceaniche presenti nelle nostre istituzioni dell’arte: «Il Rijksmuseum di Amsterdam è stato chiuso 10 anni per ristrutturarsi. Chi oggi critica le condizioni degli Uffizi [che stanno adeguando i loro sistemi di climatizzazione e ampliando gli spazi n.d.r.] offende il lavoro che c’è dietro», spiega Natali. Affollamento o no, vero è che con l’arte si lavora da sempre, e che da sempre qualcuno ha bisogno di guardarla. Code o non code.

1 commento

  1. Mi trovo d’accordo con Antonio Natali, non si può denigrare le possibilità che da il progresso (o regresso che dir si voglia), ma bisogna invece educare le persone ad osservare l’arte in maniera consona e facile da interpretare e non come una forma d’elitè. Forse per evitare i selfie basterebbe allegare al biglietto d’ingresso (che talvolta sono veramente cari!!??) un cd (costo meno di 1 euro) con le foto e spiegazioni dei quadri o monumenti visionati, commentate (in maniera ascoltabile) da personaggi pubblici (solo esempio Piero e Alberto Angela)

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