01 settembre 2014

Reading Room

 
Benjamin versus Cacciari. Torna in libreria il saggio più famoso del filosofo tedesco e uno dei più citati della storia dell’arte: L’opera d’arte nell’epoca della sua riproducibilità tecnica. Con un saggio di Massimo Cacciari
di Mariangela Capozzi

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La nuova edizione economica, pubblicata da Einaudi, riporta sulla scena uno dei saggi più citati della storia dell’arte. A dire il vero, citato più nel titolo che nei contenuti, che si fermano per lo più alla famosa “perdita dell’aura” dell’opera d’arte. Il libro si arricchisce di note introduttive, raccolte da Francesco Valagussa che spiegano nel dettaglio la storia di un work in progress mai veramente compiuto, fatto di edizioni, riedizioni, appunti,  traduzioni e note, riportate tutte alla fine del volume e conservate prevalentemente nel Benjamin – Archiv a Berlino e presso la Bibliotèque Nationale di Parigi. Un percorso in cui l’autore ha sempre cercato il confronto con grandi personalità culturali, come parziale scusante per l’aspetto un po’ perentorio e didascalico del testo. E anche per quello che fa definire a Brecht il testo “raccapricciante”: “tutto è mistica in questo atteggiamento contrario alla mistica. Tale è la forma in cui viene costretta ad adattarsi la concezione materialistica della storia!”. 
Il noto intellettuale ed autore teatrale era stato intrepidamente interpellato da Benjamin, come ci racconta Valagussa, che gli aveva sottoposto la traduzione francese della terza versione del testo, nella speranza che il suo saggio potesse essere pubblicato anche a Mosca. La frenetica corsa dell’autore a diffondere, scrivere e riscrivere il suo saggio, dimostra il desiderio di accendere un dibattito, stimolare una riflessione globale, più che di elaborare una teorizzazione marxiana dell’arte come produzione legata al mercato. E le accuse rivolte a Benjamin appaiono piuttosto ingiuste. 
In questo senso il saggio di Massimo Cacciari Il produttore malinconico, pubblicato in apertura nella nuova edizione del 2014, aiuta a far luce sul retroterra culturale, artistico e soprattutto poetico in cui il lavoro di Benjamin ha visto la luce. E consente di far affondare nello spleen di Baudelaire le righe pragmatiche e materialiste dell’autore e di introdurre il concetto del far «rinascere il senso stesso del fare artistico». L’analisi del filosofo si addentra nella riflessione sulle novità introdotte dalla fotografia e in particolare dal cinema, che determinano una nuova caratteristica del pubblico, una sorta di bulimica e disincantata distrazione, non necessariamente intesa con una connotazione negativa, figlia del tempo e della frenesia della metropoli e sostituitasi alla tradizionale forma di contemplazione dell’oggetto o della pratica artistica. E allora nelle parole di Cacciari, la tanto famosa perdita dell’aura viene sostituita con l’indicazione dell’importanza del cosiddetto «choc metropolitano», definito «trauma e anche sogno, visione metafora e, prima ancora, memoria». 
E lo spleen, in questo senso, equivale a descrivere l’atto del «consumare», rapiti da una vorace «curiositas» che induce a muoversi, cercare, conoscere, nutrirsi, lasciando poi il flâneur in preda ad una forma alta e produttiva di angoscia, definita brillantemente come «la noia cui manca il respiro», che si tende e si stende nell’animo umano fino alla sua rivolta. E la riflessione di Cacciari regala al saggio di Benjamin un’appendice affascinante, inedita e a questo punto insostituibile: «Alla forma che trascina e consuma, per cui l’esserci si trascina e consuma, può opporsi quella maniaca, per cui l’esserci ha cura del suo indistruttibile, ha cura di esprimerlo con parole che custodiscono “l’essenza divina” della cosa stessa, il suo lato assolutamente proprio e singolare, irriducibile ad altro da sé, che non tramonta in altro». 
Il desiderio di Benjamin appare compiuto:sempre alla ricerca di qualcuno che accogliesse la sfida di un confronto con le sue riflessioni, l’autore ha trovato nel filosofo italiano Cacciari un significativo compagno di strada. Chissà se questo confronto attraverso i secoli non sia destinato ad arricchirsi ulteriormente nel tempo di nuovi viaggi all’interno della strana natura di quella che chiamiamo arte. Naturalmente «nell’epoca della sua riproducibilità tecnica». 
L’opera d’arte nell’epoca della sua riproducibilità tecnica. Con un saggio di Massimo Cacciari
Autore: Walter Benjamin 
A cura di Francesco Valagussa 
Editore: Giulio Einaudi
Data di pubblicazione: 2014
Pagine: 100
Euro: 8,00

3 Commenti

  1. >>> le tesi datate di Benjamin: egli inciampa in errori assai comuni in quei teorici privi di una conoscenza diretta delle tecniche artistiche.

    >>>mi limito a poche osservazioni. L’opera è sempre stata riproducibile e riprodotta tecnicamente anche su larghissima scala. Le prove più persuasive di tale evidenza le troviamo già nell’arte antica, dalla ritrattistica statuaria fino alle repliche romane di modelli ellenistici. Non va dimenticato che pittura e scultura vanno di per sé intese quali tecniche, non generi artistici; il percorso che dalla tecnica conduce al genere (ed oltre) è un tracciato lungo, articolato. La “copia” di una scultura deve essere intesa quale “riproduzione tecnica” più che “copia artistica”.

    >>>e, d’altro canto, la riproducibilità tecnica precede quella meccanica e tecnologica; il dato manuale – o di relazione tra corpo e strumenti/medium – che corrisponde all’intenzionalità di chi sceglie un soggetto da fotografare e riprodurre permane (frazionata in impercettibili, minimi passaggi) nelle tecnologie contemporanee più sofisticate, nel clic di un computer o di una macchina fotografica.

    >>>analoghe considerazioni si prospettano allorché prendiamo in esame il concetto di aura. Errato addebitarla alla fruizione devozionale/cultuale che essa avrebbe avuto in origine – l’opera d’arte sacra rimane tra le più riprodotte su larga scala. Essa infatti, tranne quei casi riconducibili ad eventi miracolosi od alla devozione popolare, possiede aura (come nelle icone) in quanto fedele “riproduzione” di una matrice, oppure essendo fruita ed utilizzata quale inerte supporto materiale di una dimensione trascendente.
    Viene così a delinearsi una conclusione opposta secondo cui l’aura laica e “secolarizzata” stigma di originalità ideativa trova, attraverso numerosi passaggi, una sua definitiva precisazione nel Rinascimento parallelamente all’emergere del ruolo sociale dell’artista divo pop, artifex “firma”, mente ideativa, depositario della paternità creativa del proprio “stile”, quello leonardesco, michelangiolesco, giorgionesco, ecc…. Il riconoscimento sociale dell’invenzione quale evento laico numinoso della scoperta accompagna la consapevolezza che la corretta lettura formale di tale “evento ideativo” non verbale può avvenire in presenza del suo supporto materiale originario, fattore non eludibile come elemento integrante di un processo percettivo prima, interpretativo e conoscitivo poi, correlato appunto ad una fruizione di linguaggi non verbali. (…)

  2. la tecnica è svelamento dell’essere fisico-psichico,quindi,la ri-producibilità dell’opera d’arte svela che ogni ente in genere,è ri-producibile perchè frutto di un idea mentale costruttiva, gli atomi sono riproducibili,gli universi sono riproducibili,ecc……..quindi l’essere stesso lo è,oggi,la ri-producibilità dei file digitali,mostra un ulteriore svelamento: la realtà fisico-psichica è creazione percettiva della mente umana, in ogni momento manipolabile e ri-trasformabile, un opera creativa-percettiva in-terminabile e in divenire…….

  3. >>>mentre codifica l’idea di aura, Benjamin riposiziona l’opera isolandola entro la sfera di alcune funzioni cultuali, ideologiche, propagandistiche, restituendone una lettura dogmaticamente inscritta in formule narrative, ma sottraendola in questo modo alla disciplina che gli è pertinente, la critica d’arte.
    Una linea di riduzione dell’arte visiva ai dispositivi del linguaggio verbale oggi assai comune nell’ambito del “contemporaneo”.

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