06 dicembre 2014

Fino al 7.XII.2014 Filippo Timi, Skianto Teatro Parenti, Milano

 

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Entrando nella sala grande del Franco Parenti, si pensa al Don Giovanni, il confronto viene spontaneo. E si sussurra, o quelli più timidi lo pensano soltanto: “cosa mai ci proporrà questa volta il Timi?”.
Si spengono le luci. Skianto, scritto a caratteri cubitali su un telo nero. Ecco Filippo Timi, è subito show.
Ma non è il Don Giovanni, anzi. Ci si domanda cosa c’entri quell’equilibrista con caschetto nero e pigiama infantile che è ora sul palco con il manierista conosciuto. Non c’entra niente. Ma sono comunque due facce della stessa persona che deve portare avanti le molteplici maschere della sua attività.
Il bambino Filippo non parla. È handicappato. Noi sentiamo il suo lamento interiore, quello che vorrebbe dire se fosse una persona normale. Dentro la prigione dorata della sua cameretta vive la sua vita e scopre la sua esistenza, le sue mani – le mani, cosa fare con queste mani – il suo sesso, il suo tutto. Quattro mura lo separano dal resto del mondo, dal cielo che inizia dai piedi, dal mare che chissà se ha mai visto. Dall’esterno Filippo è muto, è fermo. Si esprime a lamenti e grugniti. Le sue giornate sono scandite da note tristi emesse da un Grunding arancione e genitori poco affettuosi, che provano pietà per questo girino vincente. Ma dentro, no, dentro è un’altra cosa. Filippo canta Lady Gaga, balla meglio di Heather Parisi, pattina come i campioni olimpici russi e fa le acrobazie come neanche Juri Chechi. 
Che sia un confronto, tra il Filippo Timi reale e il bambino portato in scena, è ovvio. La vita, a differenza delle aspettative, ha avuto apparentemente un finale più lieto rispetto a quello proposto nello show, dove un delizioso Andrea Di Donna, a fine spettacolo, invoca, quasi supplicandola, un’altra possibilità. Ma forse questo risvolto positivo è appunto solo apparente. 
Filippo Timi in Skianto
In diverse critiche lette sullo spettacolo Skianto ci si domanda il perché di un continuo calo di tensione, una pausa emotiva, anche nel momento in cui il monologo raggiunge corde difficilmente avvicinabili. A un certo punto arriva la stroncatura. Lo Skianto. 
Nello spettacolo, una parte del mondo si rappresenta davanti al mondo, e gli è superiore. Lo spettacolo non è che il linguaggio comune di questa separazione. Ciò che lega gli spettatori non è che un rapporto irreversibile allo stesso centro che mantiene il loro isolamento. Lo spettacolo riunisce il separato ma lo riunisce in quanto separato. (G. Debord)
Probabilmente l’aura creatasi attorno al Filippo Timi personaggio esige che vengano rispettati gli stereotipi del ruolo. E questo lo ingabbia. Il suo handicap sono gli spettatori, i suoi spettatori. Che lo seguono come groupie a un concerto pop, che ridono non appena vedono un gatto che salta, che applaudono alla prima parola, che rispondono a domande retoriche, che commentano a voce alta. Il pubblico è la sua maschera, il suo limite, il suo non osare. Perché fondamentalmente non capisce. Questo pubblico non coglie che lo spettacolo e il personaggio si rappresentano su quel palco come proiezione del mondo. Come critica del mondo. 
Timi porta in scena questa conflittualità, con cinismo e altisonanza. Magistralmente. Ma pochi capiscono. Ed è un peccato, perché lo spettacolo è bello. E triste. La sceneggiatura incanta ed immobilizza, non importa se non si capisce tutto del dialetto perugino, non serve. Uno stato di grazia appaga i sensi che ascoltano la voce di Andrea Di Donna che interpreta brani noti, resi quasi irriconoscibili, e altri invece inediti. Le luci, la scenografia e i costumi sono la quadratura del cerchio. Ma come sanno i matematici, impossibile.
Ma a tutti sta bene così.
Giulia Alonzo
Skianto
Di e con Filippo Timi
Voce e chitarra Andrea Di Donna
Luci Gigi Saccomandi
Costumi Fabio Zambernardi

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