13 dicembre 2014

Il mondo fluttuante post Fukushima

 
Quinto appuntamento per Microprisma, nuovo spazio romano dedicato alla fotografia aperto al Pigneto dall’ottobre scorso. Ora è la volta della giapponese Miho Kajioka

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Il cortocircuito per Miho Kajioka (Okayama 1973) è l’immagine dei pavoni, bellissimi e impassibili, che passeggiano per le vie deserte di Fukushima all’indomani del disastro nucleare. In un blog legge che sono rimasti nella zona evacuata, all’interno della fascia dei 20 chilometri. Mettendo da parte qualsiasi simbologia, ad attrarla è l’eleganza di questi uccelli vanitosi e l’elemento decorativo e ornamentale delle loro piume ostentate nella ruota. È anche per questo che sceglie di realizzare una serie limitata di opere collocando l’immagine con il pavone all’interno di una scatola di legno di kiri (usato anche per conservare i vasi di ceramica, bere alcuni tipi di sake ed altro), rivestita internamente da un prezioso tessuto prodotto artigianalmente nel suo Paese.
In occasione di “Layers”, la sua prima personale italiana da Microprisma a Roma (fino al 17 gennaio 2015) – la fotografa, nel 2013, ha vinto il Premio Fotoleggendo e nello stesso anno è stata finalista al Portfolio Italia di Bibbiena, nel circuito FIAF, dove ha esposto nella collettiva “As it Is” – ha scelto prevalentemente immagini di piccolo formato e in un bianco e nero quasi rarefatto e talvolta virato in seppia. 
Miho Kajioka, #16 (Courtesy the Artist & Microprisma)

«Il colore distrae, è pieno di informazioni e riferimenti. Preferisco il bianco e nero perché permette di riflettere», spiega Kajioka. Ad affascinarla è anche il contatto fisico con l’oggetto fotografia, soprattutto in camera oscura nelle varie fasi del procedimento di sviluppo della pellicola e di stampa alla gelatina ai sali d’argento.
Guadando intorno a sé, giorno dopo giorno, prende nota di oggetti, situazioni, paesaggi, momenti utilizzando il mezzo fotografico. «Non mi ritengo una fotografa. Non vado a cercare le immagini, le trovo. Fotografo ciò che cattura la mia attenzione, poi metto da parte le foto e aspetto il momento giusto per andarle a riprendere dall’archivio».
La fotografia, per lei, significa anche la possibilità irrinunciabile di dare libero sfogo alle emozioni. «Lavoro da dieci anni come giornalista, producendo news e programmi documentari televisivi per il mercato estero. In particolare nel 2011, coprendo per un anno il post terremoto e tsunami per un programma brasiliano, mi è capitato spesso di dover reprimere le mie emozioni. Finché non ho capito che tornare all’arte, che ho studiato a San Francisco e in Canada, mi dava la libertà di mettermi in gioco».
Miho Kajioka, #6 (Courtesy the Artist & Microprisma)

Quando nei primi anni Novanta si reca al San Francisco Art Institute, per proseguire alla Concordia University di Montreal – come è successo a molti altri connazionali (uno dei quali è Hiroshi Sugimoto) – i suoi amici e colleghi danno per scontato che lei non solo sia informata, ma incarni certi stereotipi culturali del Sol Levante. «Mi chiedevano se conoscessi la cultura zen, la cerimonia del tè, avessi letto Mishima, visto i film di Kurosawa e Ozu… Io non sapevo nulla di cultura zen e di tutto il resto, ma è stata l’occasione giusta per studiare dall’esterno certi aspetti della cultura del mio paese. Ho visto anche tutti i film di Kurosawa e di Ozu».
Naturalmente ritroviamo tutti questi riferimenti – in maniera silenziosamente implicita – nel suo lavoro. Frammenti metabolizzati e stratificati di un mondo personale, ma condivisibile. In particolare, è presente l’esperienza maturata sul campo, nella pratica della pittura e nella realizzazione di numerose stampe calcografiche: partendo dalla fase dell’incisione della lastra di rame, per poi procedere con il passaggio della stampa. 
Miho Kajioka, #9 (Courtesy the Artist & Microprisma)

Quanto ai mentori, l’artista cita Giacometti, Egon Schiele e la Secessione Viennese e quando salta fuori il nome di Masao Yamamoto, esclama: «Sono molto amica sia del fotografo che di sua moglie. Per lui sono un po’ come una figlia. Ha visto tutte le mie fotografie. Masao Yamamoto mi ha insegnato a guardare».
Ma anche a non guardare, viene spontaneo replicare. Nel senso di attraversamento del detto e del non detto. In quell’attenzione alle piccole cose che rendono il racconto unico. Nella sensazione di sospensione in una dimensione lirica. Nel modo di sussurrare e non gridare. 
C’è molto di tutto questo nell’estetica di Miho Kajioka, che proprio dall’incontro con i pavoni di Fukushima – da quello sdoppiamento emotivo in bilico tra bellezza e dolore –  ha intrapreso la via della consapevolezza che non esclude la presenza del piacere e della felicità.
Miho Kajioka, #14 (Courtesy the Artist & Microprisma)

In “Layers” (gli Strati, a cui allude il titolo stesso) esprimono anche la relazione stretta tra immagini e parole. Pensieri, appunti veloci che l’autrice segna sul suo notebook per poi condividerli con lo spettatore. «Non avevo mai visto questa spiaggia cosi vuota in Agosto, mi ha detto un amico che è nato e cresciuto ad Iwaki, Fukushima» – scrive Kajioka – «Era l’anno dopo il disastro. Ho sentito che molte persone sono andate al mare là quest’anno». Oppure, «A Tohoku, la parte nord del Giappone dove è avvenuto il disastro, tutti i tipi di fiore sbocciano nello stesso momento in primavera. In un villaggio vuoto, ho visto fiori di ciliegio, fiori di pesco, mimosa e magnolie, tutte assieme. Sembrava il paradiso ed era la mia prima primavera a Tohoku». 
Maltrattata dall’uomo, contaminata, la natura reagisce con la sua innata vitalità. Il monito c’è, ma insieme quella bellezza innocente che porta Miho Kajioka a interpretare il mondo fluttuante post Fukushima con lo sguardo di chi va oltre: «Questa è la terza volta che lo tsunami trascina via la mia casa!», dice un ottantenne con una grossa risata. «Non è gran cosa. Ne ricostruirò un’altra».
Manuela De Leonardis

Nella prima immagine: Miho Kajioka, foto di Manuela De Leonardis

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