02 febbraio 2015

Teho Teardo/L’intervista

 
TUTTO IL POTERE AL DADAISMO
Ha musicato tre film di Man Ray. E ora i suoi concerti sono di scena a Torino, poi a Roma e da ultimo a Perugia

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Il 2014 è stato l’annus mirabilis per Teho Teardo: per l’attività live e in studio, per il numero di progetti portati a buon fine e le idee concretizzate, per il consolidamento di collaborazioni già esistenti e le aperture a nuovi incontri. Cinquanta date live in Europa tutte sold-out (con Blixa Bargeld e con il suo progetto “Music for Wilder Mann”) e la gratificante esperienza teatrale con Enda Walsh per Ballyturk, il cui lavoro musicale gli ha appena procurato la nomination per il sound design agli Irish Theatre Awards irlandesi.
Inarrestabile anche l’attività come musicista per il cinema che lo porta oggi all’incontro con Man Ray. Dopo aver eseguito in prima assoluta a Villa Manin, Udine, le musiche per tre film dell’artista dadaista nell’ambito della grande mostra a lui dedicata, ora Teardo porta il suo progetto nelle principali città italiane ed inizia da Torino (Museo del cinema, 6 febbraio), Roma (MAXXI, 7 febbraio) e Perugia (Postomodernissimo, 24 febbraio). Assieme a Elena de Stabile al violino e Stefano Azzolina alla viola, in una sorta di installazione quaranta chitarristi elettrici saranno con lui sul palco nel finale. Ecco come ci racconta quest’ultima esperienza
Dall’entusiasmo con cui hai affrontato il cinema di Man Ray, si intuisce l’importanza che la sua figura ha per te. Man Ray cambiava continuamente strada: da disegnatore a grafico, poi pubblicitario, fotografo, pittore, regista, scultore. Anche tu cambi spesso direzione, giusto?
«Sì, anche perché credo che a restare sempre nello stesso punto si perda obiettività. La musica stessa richiede uno spostamento per essere pensata e scritta. Lavoro a progetti differenti anche contemporaneamente e spesso ho bisogno di osservare una stessa cosa da diversi punti di vista».
Elena de Stabile, Teho Teardo, Stefano Azzolina
Hai scelto tu di musicare questi tre film di Man Ray?
«I film di Man Ray sono quattro; Piero Colussi (sovrintendente di Villa Manin che ha curato il progetto e la mostra su Man Ray n.d.r.) mi ha suggerito questi tre, Le retour à la raison, Emak Bakia e Etoile de mer, e anche a me è parso che costituissero un percorso interessante dal punto di vista del rapporto con la musica». 
Se ti venisse chiesto, scriveresti anche la musica per il quarto film?
«Immediatamente. In realtà ci avevo già pensato, ma questo progetto ha una sua forma che mi sembra risolta; non è escluso però che in futuro io decida di sostituire uno di questi tre film con il quarto».
Da giovane Man Ray costruiva oggetti assurdi, apparentemente inutili ma che per lui avevano un significato. Anche tu utilizzi e crei strani oggetti sonori.
«Uso impropriamente gli oggetti e forse questo è analogo. Uso una batteria elettronica per creare drones o suoni d’atmosfera, uso l’aria compressa, la tecnologia per scopi per cui solitamente non è prevista; uso roncole, forbici, corrente elettrica per i rumori statici e le interferenze che produce, uso oggetti danneggiati, hard disk difettosi… sento molta vicinanza con Man Ray in questo. Quando penso a lui non posso fare a meno di pensare anche a Duchamp per la loro prossimità e per tutto il pensiero relativo al ready-made, al riconoscere agli oggetti delle valenze – estetiche o di mero utilizzo – per cui non erano stati pensati. Quando nelle fonti ritmiche cominci a usare i disturbi che crea un telefono cellulare, significa che ti stai avvicinando a quel pensiero». 
Man Ray - Autoportrait avec et sans barbe - 1943 - courtesy coll. Leggeri, Bergamo
Il Dadaismo ha fatto cadere la barriera tra teoria e pratica: un modo efficace per sottrarsi ad un sistema di regole e di convenzioni, una sorta di ribellione. Esiste la ribellione nella musica oggi?
«La ribellione per me si manifesta nel dissentire circa lo stato delle cose e si giustifica nel trovare un proprio punto di vista sul mondo. Non mi va di accettare il mondo così come appare, credo ci sia la possibilità di migliorarlo. La musica non cambia il mondo, ma chi la fa può trovare una linea di contatto con chi la ascolta per fare in modo che le nostre coscienze siano più attente rispetto a dove siamo, a chi siamo. Quando mi sono avvicinato al mondo Dada, mi ha sorpreso la capacità provocatoria di quel movimento. La componente di provocazione e di sfida nel lavoro figurativo dei surrealisti e, prima ancora, dei dadaisti, era più marcata, più evidente e anche molto più pericolosa rispetto alla musica di allora. Quel senso di pericolo, quella tendenza a rimettere ogni cosa in discussione mi ha sempre intrigato e inoltre rivelava umiltà. Credo che Man Ray stesso abbia fatto passare un grande messaggio di umiltà».
Man Ray credeva nelle possibilità offerte dagli incontri, quello con Duchamp è emblematico ma ce ne sono stati molti altri. Mi sembra che anche tu cerchi il confronto e la collaborazione con altri artisti.
«Lo faccio da sempre; inizialmente questo era il riflesso di una mancanza ed era motivato dal fatto di vivere a Pordenone che era una città minuscola, lontana dal mondo musicale che a me interessava. Per questo ho sempre cercato incontri, scrivendo, tentando di entrare in contatto con persone con cui desideravo interagire. Poi stare soli è noioso, è come restare sempre dentro lo stesso acquario: si ha bisogno di uscire di lì».
Quando ti è stato proposto di lavorare ai film di Man Ray hai avuto subito un’idea del suono che volevi ottenere?
«No, al contrario ho dovuto rifletterci molto e poi, in maniera piuttosto situazionista, ho pensato: “Ok, quando torno nel mio studio, inizio a lavorare solo con gli oggetti che ho sul tavolo”. Avevo a disposizione una campana, due coltelli, delle roncole, un paio di forbici… oggetti contundenti, affilati, potenzialmente pericolosi e questa coincidenza mi divertiva. Poi ne ho aggiunti degli altri ma tutto è avvenuto utilizzando solo oggetti posati sul mio tavolo; volevo pormi dei limiti e muovermi in un ambito circoscritto. Quando ti dai delle regole e sei costretto a lavorare con il poco che hai, devi davvero rimetterti in gioco.
In questo contesto iniziale piuttosto ritmico ho poi cercato di inserire elementi armonici e melodici: c’è una grande presenza di archi (in questo momento violino e viola sono una specie di ossessione per me) e di chitarre. La componente percussiva è però molto forte. Non a caso il primo suono che ho registrato in questo progetto è stato quello di una campana e il primo film, Le retour à la raison, inizia proprio con una campana». 
Teho Teardo, Le retour à la raison, foto di Elia Falaschi
Di solito tu lavori sulla sceneggiatura e non sul girato, mentre qui si partiva da immagini e da montaggi nella loro versione definitiva. Quindi, Il tuo approccio al film è cambiato?
«Sì, è stata una cosa nuova per me; solitamente preferisco lavorare sulla sceneggiatura e immaginare un mondo partendo da lì. Stavolta è stato tutto diverso; visti i film, è probabile che non ci sia mai stata una sceneggiatura e inoltre non c’era un regista con cui relazionarsi. Man Ray è morto nel 1976, io avevo dieci anni allora, quindi c’era anche una distanza temporale tra me e lui, che raccontava un’altra epoca. Devo dire che la mia curiosità per quell’epoca non viene tanto dalla distanza temporale, quanto dal fatto che è stata cancellata. Quando penso ad un aspetto identitario forte dell’Europa mi vengono in mente subito, senza nostalgia, gli anni Venti e Trenta: l’arte di allora era una cifra netta che raccontava esattamente com’era l’Europa in quel momento. Quegli artisti avevano iniziato a delineare un profilo identitario europeo molto significativo, che la guerra ha cancellato e che non è stato possibile ripristinare perché, immediatamente dopo, l’Europa è stata invasa dalla cultura, dall’arte e dalla musica americane. Credo che gli artisti abbiano il compito di decifrare la contemporaneità, di codificare e di raccontare il mondo; le proiezioni di Man Ray e degli artisti contemporanei lasciavano sperare in un futuro fantastico, c’erano sprizzi di gioia e di energia fortissimi nel loro lavoro ma tutto è stato spazzato via dalla guerra. E non si può tornare indietro perché sarebbe un’operazione nostalgica, ovvero l’antitesi del percorso di Man Ray». 
Teho Teardo, Le retour à la raison, foto di Elia Falaschi
Anche tu sei un artista; come leggi il tempo presente e come ti prefiguri il futuro?
«Credo che uno dei miei filtri per guardare il mondo sia una sorta di inquietudine che arriva fino alle utopie».
Ascoltando la musica si intuisce che hai lavorato in una condizione di estrema libertà, anche perché conoscevi bene l’artista e il suo mondo.
«È così; in una lettera immaginaria a Man Ray, ho scritto che non amo l’idea di colonna sonora perché presuppone un “accompagnamento”. Il cinema d’autore non dev’essere accompagnato; c’è invece bisogno di stabilire un rapporto con esso. Se avessi fatto una musica di commento ai suoi film, avrei poi temuto un’incursione notturna di Man Ray che mi avrebbe piantato nel cranio il suo famoso ferro da stiro chiodato».
L’esecuzione dal vivo delle musiche per questi film si chiuderà con una sorta di installazione con quaranta chitarristi, tutti con amplificatore e distorsore. Come è nata questa idea?
«Quando nell’ultimo film si va a nero, quaranta chitarristi iniziano a suonare con me un unico accordo per circa un quarto d’ora, in un contesto che diventa quasi sufi per la reiterazione e la ripetitività, e creano un ambiente. Man Ray racconta un mondo che, come ho detto, è stato cancellato dalla guerra. Qui c’è una campana che suona ed è un rintocco funebre per il Novecento che non c’è più, che è stato spezzato, interrotto. Lui mi è comparso in sogno ripetendo questo numero: “Quaranta!”. Non ho capito subito cosa potesse significare; poi ho pensato che avrei dovuto cercare quaranta chitarristi e, in una situazione molto Dada, inserirli all’interno dell’ultimo brano. Quindi, dalla visione dell’ultimo film e dall’esecuzione dal vivo delle musiche, con le quaranta chitarre si passa ad un ambito puramente musicale di concerto, ma con nell’aria ancora il riverbero di quel mondo che non esiste più».

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