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A volte ritornano. E non sono solo nomi e teorie, ma anche idee. Che l’arte faccia bene alla vita è indubbio, e chi frequenta il variopinto mondo di mostre, artisti, galleristi e critici lo sa bene. Certo, l’importante è non restarne frustrati, o schiacciati. Di questo forse non vi parlerà Alain de Botton, nel suo libro Art as teraphy. Svizzero, presentatore televisivo, imprenditore culturale e saggista, se ne è uscito con l’idea che le opere più famose ritraggono tutte soggetti “belli”: persone felici, cieli blu, fiori, mentre sotto i nostri occhi sfilano ogni giorno immagini di devastazione e odio.
Peccato pero che i fiori, i cieli blu o le ballerine siano nati da ossessioni, da problematiche esistenziali, da paure.
E anche se nel volume è contemplato un “riapprocciarsi con la normalità del dolore” e il combattere l’ottimismo forzato della società dei consumi, c’è qualcosa di puramente e dolcemente naif nelle teorie di De Botton, quasi un alleggerimento infantile.
Poi, sicuramente, anche una serie di giuste nozioni: dall’equilibrio che ci pervade mentre, catarticamente, vediamo tutto lo squilibrio possibile nelle opere, fino alla visione dell’arte come “propaganda”: della vita semplice (ma chi l’ha detto, e dove si è visto? Forse se ci si ferma al binomio “contadini-Van Gogh”), della necessità di ampliare i propri orizzonti, o di un approccio più gioioso alla vita (anche questo punto piuttosto discutibile). «L’arte è una forza che sostiene il lato migliore della natura umana, rafforzandolo e mettendolo in evidenza in un mondo sempre più distratto e rumoroso», ha spiegato lo studioso.
Che, insomma, vuole farci rilassare. E usare l’arte come arma psichica per aiutare noi stessi. Qualcuno già lo sa, il resto – visto con tutto questo “rosa” – non sembra altro che un art attack.