17 marzo 2015

Matisse e l’Altro da sé

 
Venti dell'Est a Roma: arriva il grande pittore francese col suo carico di colore, geometrie, maschere d'art nègre e arabeschi. Insegnandoci che il mondo è più piccolo di quanto si creda

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Al di là della portata della sua pittura, cosa ci consegna Matisse? Quale valore culturale ci lascia la retrospettiva in corso alle Scuderie del Quirinale? 
Sono solo una trentina gli oli su tela, e tanti i disegni, gli studi e i vestiti. Ma quello che fa una mostra grande non è sempre il numero o la provenienza, ma qualche volta come essa cuce un messaggio culturale nel tessuto della vita e col suo pubblico.
Uscendo dalla mostra (iniziata il 5 marzo e che dura fino al 21 giugno) dedicata al maestro del colore, a cura di Ester Coen,  la sensazione che rimane è quella di aver fatto un tuffo nelle meraviglie dell’Oriente. Tutto, tra lo stupore delle tinte pure di Matisse, dei favolosi oggetti esotici e dei tappeti o paraventi di Fez, le splendide ceramiche invetriate turche, le stampe nipponiche, l’arte islamica nonché i costumi e le scenografie dei Balletti Russi, ci parla di un mondo altro che arriva a Roma in un momento drammatico fatto di lacerazioni incolmabili sulle sponde del Mediterraneo e oltre. 
E allora questa mostra ha qualcosa da dirci.
Promossa dal Ministero dei Beni e delle Attività Culturali e del Turismo, da Roma Capitale, organizzata dall’Azienda Speciale Palaexpo in coproduzione con Mondo Mostre, sembra volerci suggerire, così, tra le righe, come l’arte di Matisse, la grande arte francese e occidentale, guardi al di là del proprio naso, e veda l’Altro come un valore aggiunto e non come uno straniero da tenere a distanza.
In mostra, di sala in sala, dopo i primi esercizi di fiori (Calle, iris e mimosa del 1913, dal museo Pushkin di Mosca) e il Coin de table (o Violettes del 1903 dal Metropolitan) dove la natura floreale sembra più lo sfondo per una magnifica decorazione riecheggiante i damaschi e i drappi orientali esposti accanto, si passa alla Scultura con vaso di edera e l‘Italienne (1916), dove il rimando al Cubismo è ancora molto forte. Non dobbiamo dimenticare, infatti, che quando Picasso aderisce alla corrente di Matisse e dei Fauves, la sua fu un’irruzione che determinò la crisi contestando la pittura più ambiziosa del francese, la Joie de vivre.
E se per Matisse, l’arte è decorazione, essa decora non l’interno di una chiesa o un palazzo nobile, ma la vita umana.
Henri Matisse, Ramo di pruno, fondo verde 1948
Per immergerci più a fondo nella vision Matisse e perderci tra i tessuti dell’arte africana, dobbiamo entrare nella seconda sala dove già esplode quell’innamoramento per l’Oriente che colpì Matisse e che è stato condiviso da Picasso e Gauguin.
Proveniente dalla Francia (la ex galleria Matisse di Parigi) ma anche da Roma stessa (il Pigorini e il Museo Nazionale d’Arte Orientale, G. Tucci) il prezioso allestimento prevede  che ogni tela di Matisse sia presentato in contrappunto con esempi delle culture decorative esotiche, fonti d’ispirazione fondamentali per la sua innovativa ricerca di superamento della lezione dei Maestri del passato, ma anche dei rivali.
In aperta, ma serena polemica col Cubismo di Picasso, Yvonne Landsberg, è il contraltare delle Demoiselles d’Avignon. Come una Regina di Cuori, la figura femminile esaspera le dimensioni del busto e della veste con fili di pennello, che non danno solo il senso del contorno ma piuttosto lo spessore del volume. E a metà percorso, un breve documentario, mostra Matisse nell’atto di dipingere l’abito fase per fase fino a gonfiare e arricchire il vestito con quegli arabeschi tanto amati.
Nella sala 4, c’è tutto il Marocco: Zorah in giallo e Rifano in verde o Giardino marocchino (dall’ Ermitage) e anche il Giappone. Forse non si può non vedere nelle onde rosa che fanno le Pervinche quelle che Hokusai realizzò per il monte Fuji. Ma pure le mattonelle siriane e la fritta (materia vetrosa usata per le ceramiche) dell’Iran, non mancano, e sostengono un dialogo con  la Jeune fille à la coiffe persane, per esempio. Oggetti e decori simili a quelli che Matisse può aver visto a Monaco, in una di quelle Esposizioni universali che tanto offrivano con i loro mille e uno padiglioni dedicati a tutti i generi e le età delle arti.
Henri Matisse, Nudo in poltrona, pianta verde
Prima di salire al II piano, ancora uno sguardo a Zorah in terrazza dalle mani come macchie di colore e con un triangolo di luce bianca e (dalla Tate di Londra) lo Stagno, l’ultimo esito impressionista di Matisse, affiancato da quattro Hiroshige in stampa e i bruni di Unkoku del XVI secolo. 
Da dove arriva questo amore per l’Oriente? Tutto inizia nel 1906 quando il pittore, nato a Cateau Cambrésis nel 1896, un paesino freddo e austero, fa un viaggio in Algeria che sconvolgerà la sua visione per sempre. Dopo l’Africa, è la volta di Monaco di Baviera per visitare l’Esposizione d’arte maomettana e poi Mosca dove scopre con grande stupore le icone russe. Siamo nel 1920 e Sergej Diaghilev gli chiede di realizzare le scene e i costumi per il balletto Le Chant du Rossignol (in mostra anche due video). 
L’altra novità dei Fauves, di cui Matisse è il protagonista, è non solo rendere il quadro una realtà a sé (come Gide fa col romanzo negli stessi anni) ma pure tentare una sintesi (quale migliore modello fu la Danza?) delle arti: musica, danza e teatro confluiscono tutte nella pittura. Così l’amalgama che si raggiunge nella creazione è un frastornare di colori, forme, arti antiche e moderne, viaggi, suggestioni forti insieme ai tapa (tessuti di corteccia d’albero delle isole del Pacifico) e le pagne (africane) ai suzani (manufatti dell’Asia centrale) e maschere apotropaiche (dal Congo o dalla Costa d’Avorio) e i katabira, (i kimono estivi) tanto che non si può uscire dalla mostra e non guardare con altri occhi, quelli di Matisse, l’Altro che ci vive accanto. Che arrivi da Fez, Iznik, dalla Costa d’Avorio o da Gerusalemme, non ha importanza. «Non dissocio i diversi elementi, per me sono un tutto unico», diceva l’artista.
Henri Matisse, Zorah sulla Terrazza 1912-13
Se però l’interesse del pittore era quello di arricchire il suo langage Matisse, la sua visione artistica, senza guardare a quegli oggetti o paesaggi esotici come documenti storici o politici e religiosi: tuttavia il contributo di Matisse inaugura una volontà di apertura degli orizzonti culturali e visivi che dal multiculturalismo del XX secolo arriva in fondo fino a oggi nel tentativo di cercare, nell’arte, un dialogo non fermo ai caratteri formali di un Paese altro, ma di superamento e di  ricerca dell’Altro, anche nel proprio Paese. E allora i fiori, i rami, le foglie de l’Albero della vita, che già fanno parte delle nuove sale dei Musei Vaticani, i cui passaggi sono qui esposti nella sua lunga preparazione: dal disegno al taglio della carta (papiers découpées), evidenziano una continua ricerca dell’essenza, della semplificazione dell’immagine nell’esuberanza del colore o della forma. E così un bouquet de fleurs vivants sboccia davanti ai nostri occhi così come morbidi arabeschi ci appaiono i nudi femminili: Femme au repos (del 1919) o Nu accroupi un carboncino del 1936. 
Le donne che Matisse ritrae sono di ogni colore e carattere. Spagnole dai capelli corvini (Espagnole avec tambourin), eleganti come la Femme assise, di alta borghesia (Paravent moresque e Les trois soeurs) o marocchine, odalische. «Non ho mai pensato che le mie creazioni fossero mostri incantati o incantevoli. A chi una volta mi diceva che non vedevo le donne come le rappresentavo, risposi: “Se ne incontrassi per strada, mi metterei in salvo terrorizzato”. Prima di tutto, io non creo una donna, io faccio un quadro».
Il segreto di Matisse? Lasciarsi alle spalle, poco a poco, le deformazioni e le elucubrazioni formali dell’Espressionismo, dando spazio invece a quegli arabeschi e disegni geometrici del mondo ottomano, agli interni moreschi, alle curve femminili, o al terrifico dell’arte negra, e a tutte quelle forme di arte orientale che tanto gli avevano rivelato.

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