01 aprile 2015

L’INTERVISTA / Adrian Paci e Roland Sejko

 
LA STORIA RACCONTATA DAI PERDENTI
Il ritrovamento di alcune lettere di italiani rimasti bloccati in Albania è lo spunto per la mostra che si inaugura oggi al Maxxi

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Dopo la seconda guerra mondiale gli italiani che erano in Albania rimangono bloccati lì per alcuni anni, Scrivono lettere alle famiglie in Italia e queste, a loro volta, scrivono a loro. Nessuna viene mai recapitata. Adrian Paci e Roland Sejko ne sono venuti in possesso facendo una ricerca nell’Archivio di Stato albanese dove erano custodite e hanno realizzato un lavoro su cinque megaschermi. Che ha per tema l’identità, lo sradicamento e la transizione. Nasce così “Sue proprie mani”, una mostra, molto toccante, che è una storia, un racconto, un’esperienza (a cura di Cristiana Perrella), visibile fino al 7 giugno e poi in collezione del museo. Abbiamo incontrato gli artisti prima dell’inaugurazione per farci raccontare qualcosa in più.
Come nasce questo progetto?
Roland Sejko: «Nasce lentamente, di sicuro. Avevo letto di alcune lettere che si trovavano all’Archivio, sono andato a vederle, le ho fatte scannerizzare ed erano rimaste lì con l’idea di costruire qualcosa. Ne ho parlato con Adrian e lui si è subito dimostrato entusiasta: da quella conversazione è poi nata l’idea di presentarle sotto forma di installazione e devo dire che abbiamo avuto abbastanza tempo per poterne parlare e oggi quello che si vede è la maturazione di un attesa, di discussioni, prove. Il tutto è durato un bel po’ di anni».
Adrian Paci: «Nasce anche dall’amicizia che ci lega da anni e da una stima che ci lega per quello che ciascuno fa nel proprio campo, quindi dalla voglia di mettere insieme le nostre idee e i vari incontri che abbiamo fatti in questi anni a livello professionale e a livello umano. Con Roland ci conosciamo dai tempi dell’Accademia che facevo io e l’Università che seguiva lui a Tirana, poi ci siamo ritrovati a Milano negli anni in cui lui dirigeva un giornale a Roma e io ho anche scritto per lui. Poi lui ha visto i miei lavori, io ho visto i suoi film e quando mi ha raccontato questa storia, l’ho trovata molto bella. Quando ho visto le lettere le ho trovate bellissime, proprio da vedere. Allora abbiamo pensato a come poter fare un lavoro che desse a queste lettere un’immagine, un possibile destinatario e, oltre alla loro visibilità fisica, anche una voce e un volto. Per farlo abbiamo voluto dare a questi materiali una presenza di finzione che però non alterasse artificiosamente la loro verità, ma partisse da questa per astrarla e portarla a un livello di racconto visionario».
Adrian Paci
“Sue proprie mani”, il titolo della mostra, si riferisce a quella sigla S.P.M. che veniva affissa sulle buste a significare che dovessero essere consegnate nelle mani del destinatario. Le lettere del vostro progetto non sono mai arrivate a destinazione: una lettera che per sua natura nasce per essere letta dal ricevente, riesce a portare un messaggio ugualmente?
AP: «C’è questa dimensione di una comunicazione rimasta in potenza che in qualche modo oggi ci racconta non solo la sua singolarità, il perché è stata scritta in quel momento preciso, ma ci racconta un di più. E quel di più lo possiede proprio perché è rimasta in potenza, ed è quello che noi abbiamo cercato di raccontare in questo progetto». 
La segregazione subita dagli italiani sotto Enver Hoxha è stata resa nota solo al crollo del suo potere politico. Come ha vissuto l’Albania questo momento?
RS: «Parliamo di due momenti molto diversi: le persone delle lettere sono un po’ sospese nel tempo nel periodo storico cui appartengono e sono persone segregate in Albania in un momento importante non solo per quel Paese, ma anche per l’Italia e tutto il mondo, ovvero la fine della seconda guerra mondiale. Era una fase in cui si stavano risistemando gli equilibri geopolitici. Queste persone sono delle vittime di una dinamica storica e politica. L’Albania, una volta uscita dalla guerra, ha tentato di ristabilire la sua posizione, così come ha fatto anche l’Italia: queste persone si sono trovate ai margini della storia e hanno rischiato di scomparire o di venire inglobati in un’altra realtà. La loro posizione in questa sorta di limbo, per quei due/tre anni in cui i due governi hanno cercato di fare entrare gli italiani in Albania e gli albanesi in un modo o nell’altro hanno cercato di esercitare i loro meccanismi diplomatici, finisce nel ’48 con il rimpatrio della maggior parte di queste persone. Quelli che rimangono in Albania e che riescono a rientrare in Italia, solo dopo la caduta del regime nel ’90, sono persone che vi sono costrette, perché hanno costruito una famiglia in Albania e scelgono di restare lì, o si trovavano in prigione e vivono una condizione di italiani non riconosciuta dal Paese in cui si trovano. Magari hanno avuto dei figli in Albania e hanno avuto un passaporto solo nel ’90».
Roland Sejko
Lo sradicamento vissuto da queste persone è lo stesso che avete subito voi allontanandovi dal vostro Paese di origine e arrivando in Italia. Com’è stato rapportarvi a una storia di sradicamento ‘al contrario’?
RS: «Più che di sradicamento, se dovessi paragonare la situazione degli italiani con quella degli albanesi negli anni Novanta, parlerei dei confini, che impediscono alle persone di poter circolare. Sono dei blocchi in cui il mondo è diviso, dove ci sono dei limiti insuperabili non per volontà delle persone stesse, ma per volontà di un governo. Nel ’48, quando sono state scritte quelle lettere, l’attesa degli italiani non è fatta dal quando veniva consegnata una lettera o da quando avrebbero potuto essere rimpatriati, ma da tentativi di scappare dall’Albania. Quei tentativi ricordano moltissimo quelli degli albanesi quando hanno provato a lasciare un Paese che era in dittatura».
AP: «Quello che ci interessa, spesso, parlando del lavoro che ciascuno di noi ha fatto singolarmente, è come le storie personali vengono in qualche modo messe in relazione con delle storie determinate da una volontà politica-statale, determinate da un potere. Ci interessa raccontare come una vicissitudine personale, con tutta la ricchezza e imprevedibilità che la caratterizzano, debba fare i conti con una situazione determinata da un potere impersonale che blocca o che sposta in altre direzioni queste vite, queste volontà individuali. L’irruzione della storia nelle vite personali che, portate alla luce riusciamo, a rileggere da un altro punto di vista. Una nuova forma di narrazione: leggere la storia non come ci è stata raccontata dai poteri stabiliti. Spesso si dice che la storia è scritta dai vincitori e qui abbiamo a che fare con dei perdenti. In questo senso vorremmo dare a quella storia un altro punto di vista».
Adrian Paci e Roland Sejko, Sue proprie mani, still da video
Entrambi avete lavorato singolarmente su un’idea della Storia, quella raccontata dai fatti registrati in un archivio, passando per le storie di persone normali, che nessuno conosce ma che l’hanno costituita, Potete spiegarlo?
RS: «Se avessimo voluto parlare della Storia avremmo scelto di fare un documentario, che sarebbe stato completamente un altro tipo di lavoro. Il lavoro è un’elaborazione artistica di come queste lettere adesso vengano rilette o riascoltate».
AP: «In generale c’è l’idea di come il piccolo, l’individuale possano contenere una potenzialità universale dentro di sé. Non c’è sempre bisogno di partire dal grande, dall’universale per capire i processi, ma si può entrare nelle pieghe della storia attraverso le singole storie di queste persone. Si parla dei rapporti tra l’Italia e l’Albania in quegli anni, ma anche del rapporto dell’individuo con la storia più in generale».
RS: «Il contesto storico, nel modo in cui viene raccontato, ci serve per raccontare un’universalità di situazioni che potrebbero essere simili a questa».
AP: «Ci sono madri che scrivono ai figli, mariti che scrivono alle mogli e che potrebbero appartenere a qualsiasi tempo. Nel film di Roland Anija, c’è proprio questo dialogo tra la folla che viene vista all’inizio ordinata e compatta nelle cronache del regime e quella serie di singole storie, singoli individui che la compongono e che raccontano altro. In questo lavoro abbiamo provato a rendere questa folla come singolare e corale allo stesso tempo, cercando di coinvolgere il fruitore che può identificarsi con i protagonisti dei video».
RS: «Anche lo stesso contesto nel quale i video sono stati girati è sospeso nel tempo, le persone sono vestite in un modo che non vuole essere volutamente riconducibile a un periodo storico». 
AP: «La sospensione nel tempo e nello spazio è uno degli elementi che porta dall’elemento concreto della lettera a questa astrazione che abbiamo voluto dare al lavoro, rendendolo non una semplice descrizione, ma una forma di messa in scena artistica». 
Adrian Paci e Roland Sejko, Sue proprie mani
Anija, la nave, viene presentata come uno spot pubblicitario all’inizio del film e il modo in cui i protagonisti ne parlano sembra essere una sorta di sogno, di speranza. Un elemento salvifico per potersi allontanare da una situazione di profondo disagio.
RS: «Quelle persone vogliono staccarsi da una realtà nella quale sono costretti a vivere, è una folla generale in cui non ci si identifica. Più che il sogno di una vita migliore, credo si tratti di un ‘andare via da’. Il momento della fuga è più importante dell’obiettivo da raggiungere».
AP: «C’è un momento del film in cui uno dei personaggi intervistati racconta che la speranza era quella di scappare, non quella di arrivare da qualche parte. Questo secondo me è molto indicativo, perché più che un obiettivo è un accumulo di desiderio».
RS: «All’inizio uno dei titoli che avevo preso in considerazione per il film era La fuga proprio per raccontare quell’esodo, che molto spesso è sfuggito nei racconti che ne sono stati fatti dall’esterno. C’è un momento, sempre nel film, in cui al capitano viene chiesto di andare a Malta, in Germania o in Olanda, nemmeno in Italia, proprio come a significare che l’idea non fosse quella di raggiungere le cose italiane, ma di andare via. Il concetto di fuga da un mondo in cui tutto doveva essere omologato, in un momento di trauma tra due sistemi nel quale solo chi ha avuto il coraggio e la possibilità è riuscito a liberarsi. Quello è stato lo spunto per noi».
Adrian Paci e Roland Sejko, Sue proprie mani, still da video
Nel tuo lavoro Centro di permanenza momentanea, Adrian, una folla di uomini si accalca sulla scaletta di un aereo che non decollerà mai. Le tue vite in transito sono quelle che Roland racconta nel duro viaggio dalle coste dell’Albania a quelle della Puglia. Questa condizione di attesa è destinata ad esaurirsi o è senza soluzione di continuità? 
AP: «Lo stato del transito è legato a momenti precisi della vita individuale o collettiva di un popolo, quindi ha i suoi alti e bassi. Pensato in una dimensione un po’ più ampia, credo sia una condizione esistenziale che accompagna perennemente l’uomo nella sua vita, al di là delle storie di immigrazioni, di momenti di guerra o di forte trasformazione politica o sociale, dove ovviamente si mettono più a fuoco gli aspetti della vita umana. Parlando del mio lavoro, per me è sempre stato interessante trattare non solo il tema dell’essere in transito, ma anche come questo elemento sia universale. Nella sua forma installativa “Sue proprie mani” tenta di andare verso una dimensione astratta che gioca su questa pulsione tra la sua precisa individualità e la sua dimensione universale. Dalla scelta del farlo diventare un’installazione a cinque schermi, a come appaiono le figure, all’atmosfera di luci e costumi. Si tratta di un lavoro che non consiste nel formalizzare esteticamente una forma, ma nel portare questo fatto preciso e singolare in una dimensione più ampia».
Alessandra Caldarelli

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