04 aprile 2015

17 anni e già grande. Chi se non Raffaello

 
Il ciclo espositivo “Rinascimento” si conclude a Brescia ricomponendo i frammenti esuli della Pala Baronci, opera prima dell’artista. Che lo confermano genio assoluto

di

Se non si trattasse del primo lavoro noto del celeberrimo Maestro urbinate, avrebbe tutta l’aria del ricongiungimento familiare al termine di una vicenda dagli aspetti  romanzeschi e travagliati.
Già, perché l’esposizione “Raffaello. Opera prima”, ultima tappa della triade espositiva “Rinascimento”, che si chiude dopodomani, 6 aprile, al Museo di Santa Giulia a Brescia, è parsa da subito incentrata sull’obiettivo di ricongiungere i frammenti superstiti, quelli sino ad ora conosciuti, oggi conservati all’interno di collezioni pubbliche ma che un tempo costituirono la perduta Pala Baronci (1500-1501), opera prima, appunto, di un giovane Raffaello Sanzio all’epoca dei fatti diciassettenne, destinato a divenire uno dei protagonisti indiscussi della scena rinascimentale.
La mostra ha il merito di accostare, riunendoli sotto il comune tetto del museo bresciano, i quattro tasselli di un mosaico oggi purtroppo visibile solo parzialmente: l’Angelo proveniente dal Museo del Louvre di Parigi, L’Eterno Padre e la Vergine prestati dal Museo Nazionale di Capodimonte di Napoli, e un secondo Angelo, conservato presso la Pinacoteca bresciana Tosio Martinengo.
Una storia avventurosa, quella della Pala Baronci, che prese avvio in seguito al crollo della chiesa che la ospitava da tre secoli e la conseguente dispersione delle sue parti superstiti che, complici successivi e ripetuti passaggi di mano, si trovano oggi conservati nelle sedi citate.
Angelo - Raffaello Sanzio - Pinacoteca Tosio Martinengo (Brescia)
La Pala originale, raffigurante l’incoronazione di San Nicola da Tolentino, fu commissionata e realizzata dal giovane Raffaello, con l’aiuto del pittore Evangelista da Pian di Meleto, per la chiesa di Sant’Agostino a Città di Castello, nella provincia di Perugia, prima di essere parzialmente distrutta e irrimediabilmente danneggiata il 30 settembre del 1789 in seguito al terremoto che colpì, devastandoli, i territori dell’alta valle del Tevere.
Fu così che i monaci agostiniani, nel tentativo di recuperare fondi utili alla ricostruzione del convento distrutto, vendettero il dipinto, o ciò che di esso rimaneva, a Papa Pio VI, che nel frattempo ne ordinò il trasferimento a Roma ove le parti sopravvissute al crollo della chiesa vennero riadattate per essere fruite e immesse sul mercato come ritratti di singoli. Un’operazione, quella avanzata dai monaci, che oggi non esiteremmo a definire di fund raising. Con un’unica conditio sine qua non: ottenere una copia dell’opera venduta da destinare al convento una volta ricostruito per scopi devozionali, per l’esecuzione della quale fu assoldato l’anziano artista Ermenegildo Costantini, la cui sorte lo volle morto nel 1791, proprio poco dopo aver portato a termine la commessa assegnatagli.
La copia elaborata da Costantini, visibile lungo la mostra e prestata della Pinacoteca Comunale di Città di Castello, dove con ogni probabilità fu realizzata e dove si trova tutt’oggi conservata, non appare tuttavia completamente fedele all’originale. Storici e studiosi hanno infatti appurato come le dimensioni appaiano minori rispetto a quelle stimate per la Pala originale, mentre la composizione è priva di talune figure e dettagli che portano ad ipotizzare come l’artista possa averla realizzata basandosi esclusivamente sulla propria memoria, oppure avendo a disposizione come modello la sola parte bassa della Pala, nel frattempo giunta nella capitale per ordine del Pontefice e, forse, segata in orizzontale per accomodarne le parti superstiti.
L'eterno padre e la Vergine - Raffaello Sanzio - Museo di Capodimonte (Napoli)

Sono ipotesi, queste ultime. Di certo c’è solo che al Papa piacque moltissimo il frammento raffigurante il Padre benedicente, al punto da portarlo nelle sue stanze col fine di adornarle. Le parti rimanenti, dicevamo, accomodate e vendute come singoli ritratti dai fondi scuri, che solo il restauro avvenuto nel 1812 ha saputo eliminare, riportando alla luce i contesti autentici e l’originale status di personaggi comprimari.
Il ché ci riporta direttamente ai giorni nostri, al cospetto dei tasselli di un puzzle ormai perduto ma che la parziale ricostruzione allestita lungo le sale del Museo di Santa Giulia, unitamente alla copia di Costantini, consente d’immaginare con un più che discreto grado di certezza.
La luce scivola sugli incarnati delle figure, permettendo di cogliere i passaggi che portarono alla maturazione della cifra stilistica che in seguito avrebbe contraddistinto l’operato del Maestro urbinate. L’uso del colore e la torsione dei colli palesano come il giovane Raffaello fosse nutrito della cultura e degli insegnamenti perugineschi, eppure gli occhi che iniziano a farsi bovini informano di come lo stile sia in rapida evoluzione e il giovane Raffaello, nel mezzo degli anni della sua formazione, sia già in grado di assorbire nuovi stimoli e influenze.
Un breve ma denso percorso espositivo, quasi una storia a lieto fine, in cui i frammenti esuli, dopo un iter travagliato durato secoli, si ritrovano in questa sede per la prima volta riuniti. Completa la mostra il disegno preparatorio dell’opera, proveniente dal Palais des Beaux-Arts de Lille, pregevole esemplare disegnato su entrambi i lati, in cui, oltre alle fattezze sbozzate dei personaggi dell’opera – utili alla ricostruzione dell’originale fisionomia di quest’ultima – sono riportati appunti che esulano dal soggetto come, ad esempio, i piccoli cigni delineati all’angolo della pagina. Un prezioso documento, quest’ultimo, in grado di prendere per mano e condurre lo spettatore a ritroso verso l’affascinante genesi della Pala. 
Bianca Martinelli

LASCIA UN COMMENTO

Per favore inserisci il tuo commento!
Per favore inserisci il tuo nome qui