08 aprile 2015

CURATORIAL PRACTISES

 
Incontro con Ambra Stazzone. L’influenza di Harald Szeemann sulle attuali pratiche curatoriali
di Camilla Boemio

di

Ambra Stazzone, è critico d’arte e curatrice, insegna Storia dell’arte contemporanea all’Accademia di Belle Arti di Catania. I suoi testi sono stati pubblicati in vari giornali, riviste e cataloghi di mostre. 
È componente del comitato curatoriale della GAD-Galleria d’Arte contemporanea e Design di Catania e Ideatrice e curatrice di Jnd Urban Art festival, di Revu video contest e di Jagged short film festival. Ha appena realizzato un volume dedicato al mondo dell’arte, pubblicato Fausto Lupetti Editore, dal titolo Harald Szeemann. L’arte di creare mostre, con una postfazione di Giacinto Di Pietrantonio, frutto anche della frequentazione di Fabbrica, lo studio/archivio in Canton Ticino di Szeemann, di cui ha seguito l’attività “sul campo”, come nel ’99 collaborando all’allestimento della 48° Biennale d’Arte di Venezia, dAPERTutto.
Harald Szeemann è stata la prima figura di curatore indipendente, internazionalmente riconosciuto come uno dei maggiori protagonisti dell’arte contemporanea. Ancora oggi un’icona curatoriale fondamentale per i giovani e per tutti coloro che vogliono approcciarsi a questo lavoro in modo autentico e viscerale. Il  suo volume indaga la singolare metodologia curatoriale di Szeemann e la sua continua ricerca in relazione al rapporto opere-spazio grazie ad un’ampia raccolta di schizzi, piantine e foto degli allestimenti. Me ne può parlare?
«Szeeman, partendo dall’assunto che l’arte possegga una carica utopica che possa cambiare la nostra visione del mondo, ha dedicato tutta la sua attività a proporre, tramite le visioni degli artisti, una via di scampo (ideale) dalla omogeneizzante società consumistica. Per far questo si è addentrato, di mostra in mostra, in territori non battuti, fidandosi del proprio intuito e del proprio carisma. Sostituendo una storia delle “ossessioni” alla storia degli stili dunque un’idea di arte libera dall’essere irreggimentata in rigidi schemi: mezzi artistici utilizzati, età, nazionalità, livello di notorietà e così vi. Ciò gli ha consentito di delineare e di esprimere una propria poetica. Di essere un curatore –autore che, in accordo con gli artisti, crea mostre esprimendo tramite di esse la propria poetica. Possiamo definire Szeemann un autore grazie alla sua personale metodologia curatoriale che gli consente di proporre una personale visione dell’arte.
Scrive Giacinto Di Pietrantonio nella sua accurata postfazione: «…a partire dagli anni Ottanta non c’è quasi mostra che non è accompagnata da un curatore, questo per sottolineare che il fenomeno curatoriale, e quindi l’affermarsi della sua figura, è un prodotto della postmodernità. Non che in epoca moderna non ci fossero curatori, solo che essi erano nella maggior parte dei casi studiosi interni ad istituzioni artistiche, soprattutto musei, e si occupavano di curare le mostre maggiormente sul piano storico-scientifico, inserendosi all’interno di una tradizione storico-artistica, invece di creare nuovi modelli espositivi».
Ecco: a mio avviso è proprio l’idea che la mostra sia un mezzo di espressione autonomo, in grado di comunicare contenuti complessi in modo spaziale ed emotivo, intuitivo, al di là del filtro della ragione, che caratterizza l’attività di Szeemann e la rende un modello per i giovani curatori».
Serge Spitzer
Potrebbe illustrarci una parte delle conversazioni inedite raccolte nel corso degli anni presso la Fabbrica, il suo studio/archivio sito in Canton Ticino?
«Proprio grazie alle conversazioni con Szeemann ho potuto comprendere appieno la sua metodologia curatoriale e di conseguenza ho voluto proporre quelle relative a temi generali – arte, artisti, Berna, Beuys, e così via – in un capitolo interamente ad esse dedicato, mentre quelle relative a temi specifici a chiusura di ogni capitolo. Di seguito uno stralcio da una delle conversazioni.
A. S. Che tipo di sensazioni vuoi suscitare con le tue mostre?
Harald Szeemann: È chiaro che voglio dare una gioia a quelli che sono i più interessati, gli artisti, a quelli che capiscono non verbalmente, e questo è un piccolo cerchio; per un altro cerchio voglio fare una sorpresa, e per gli altri, il così detto grande pubblico, voglio mostrare che si può fare della mostra un fenomeno sensuale».
Il testo introduce a un’attenta riflessione sul suo metodo di lavoro in rapporto alle principali mostre realizzate, dalla dirompente ‘ When Attitudes Become Form’ (riproposta da Germano Celant nel 2013 alla Fondazione Prada, a Venezia), alle mostre tematiche quali ‘ Le Macchine Celibi ‘, ‘ Monte Verità ‘, ‘ Der Hang zum Gesamtkunstwerk ‘, alle personali di Mario Merz, Cy Twombly, Joseph Beuys, alle Biennali d’Arte di Venezia del ’99 e del 2001. Quali aspetti emergono? 
«La sua metodologia curatoriale! Dopo un breve excursus sui più importanti episodi di allestimenti realizzati da artisti appartenenti alle avanguardie storiche, dunque sui prodromi dell’attività di Szeemann, il testo affronta gli inizi della sua carriera e dunque la creazione di un “Clima culturale” scaturito dalle mostre e dagli eventi realizzati durante gli anni di direzione della piccola Kunsthalle di Berna. Successivamente si sofferma sul concetto di “Mostra=evento”, analizzando anche la celeberrima “When Attitudes Become Form”, fino ad arrivare ad approfondire l’idea di “Lavoro (spirituale) all’estero” e la nascita della figura del curatore indipendente. Con “Mitologie individuali” si analizza documenta 5 del ’72; con “Museo delle ossessioni” la costruzione delle mostre tematiche e con “Poesia nello spazio” quella delle collettive di scultura degli anni Ottanta. “Intensioni intense” ricostruisce la creazione delle mostre monografiche e “Interrelazioni” quella delle grandi Biennali».
When attitude becomes form
La narrazione del concetto della mostra nello spazio diventa necessaria abilità per potere presentare due Biennali che sono rimaste negli annali della storia dell’ arte: “dAPERTutto” e “Platea dell’ Umanità”. I titoli ne ritraggono la dimensione stessa, nella quale gli artisti di quel periodo illustravano l’attualità. Beuys evocava sempre l’idea che ogni uomo è un essere creativo. Ecco allora che, proprio con questa abbreviazione ideologica secondo la quale tutti gli uomini sono artisti, dunque sempre potenzialmente creativi e,mostrano che il nostro vero capitale è la somma di tutte le creatività individuali, si vede qui la differenza fra quella utopia sociale e questo rinnovato interesse per casi speciali di comportamenti umani. Percorriamo così quest’arco tremendo che inizia dalle utopie nate alla fine degli anni ’60. Me ne può parlare?
«Il Presidente Paolo Baratta aveva dichiarato che la manifestazione necessitava di essere rilanciata internazionalmente e per questo compito era stato individuato Szeemann.
Le due edizioni da lui curate diedero nuova vitalità alla più antica delle Biennali. D’altronde ci si aspettava proprio questo da un curatore anticonformista e innovatore quale lui era, che già per l’edizione dell’ ‘80 aveva proposto Aperto 80, sezione dedicata ai lavori dei “giovani emergenti” che era stata “istituzionalizzata” fino all’edizione del ’95, quando Jean Clair l’aveva eliminata.
Gli aspetti di novità consistevano sia in una particolare attenzione rivolta all’allestimento, al famoso rapporto opera-spazio, che all’inclusione di lavori provenienti da tutto il mondo. Prodotti sia da artisti insider che outsider. Il che significava eliminare totalmente barriere e gerarchie di qualsiasi tipo.
Nel ’99 con “dAPERTutto” si ebbe l’allargamento degli spazi della mostra internazionale a quegli ambienti meravigliosi, non del tutto ristrutturati, che sono le Artiglierie, le Tese, le Gaggiandre che si andarono ad aggiungere alle Corderie coinvolgendo così l’intero complesso dell’Arsenale, così come avviene a tutt’oggi. Dunque il titolo si riferiva sia al voler mostrare artisti “giovani” – considerando che per Szeemann l’idea di giovane non era necessariamente correlata all’età anagrafica –che al voler interessare tutto lo spazio. Anche quello del Padiglione Italia che, per la prima volta, non ospitò gli artisti italiani ma la mostra internazionale.
E poi un altro punto di interesse dell’edizione fu determinato dall’inclusione di numerosi artisti cinesi che, per la prima volta, portarono una ventata di novità alla quale oggi siamo ormai abituati. 
Nel 2001 “Platea dell’Umanità” allargò ancora di più il campo: artisti provenienti davvero da tutto il mondo, e forte interdisciplinarietà i punti cardine sui quali fu costruita». 
Secondo lei quanto ancora oggi la figura di Harald Szeemann influenza le pratiche curatoriali? 
«La metodologia curatoriale di Szeemann costituisce un “caso” all’interno della storia della curatela e della storia dell’arte del Novecento di conseguenza la cura delle mostre oggi è “naturalmente” influenzata da essa. Non intendo dire che essa sia seguita nella sua interezza, probabilmente non sarebbe possibile, ma sicuramente rappresenta un modello per i giovani curatori. Inoltre con il tempo molte delle sue idee sono entrate a far parte della pratica corrente dunque oggi vengono messe in atto talvolta anche inconsapevolmente». 

LASCIA UN COMMENTO

Per favore inserisci il tuo commento!
Per favore inserisci il tuo nome qui