17 aprile 2015

La solitudine di Muňoz

 
Non solo cibo e design. A Milano l’HangarBicocca mette in mostra un artista potente e poetico. Con un’invenzione scenica che satura lo spazio e racconta la precarietà della vita

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Quando tra l’architettura e la scultura, lo spazio diventa l’opera, allora l’inatteso è di scena e il pubblico, sorpreso, ringrazia. La retrospettiva “Double Bind & Around” (fino al 23 agosto) composta da 15 opere di Juan Muňoz (1953-2001) presentate per la prima volta in Italia nell’HangarBicocca a Milano (prima mostra del nuovo assetto Pirelli, dopo la vendita ai cinesi che però rinnova il suo impegno di promozione dell’arte contemporanea nei prossimi anni), è concepita come una “macchina” delle invenzioni sceniche che avrebbero entusiasmato anche il regista Luca Ronconi ed è stata realizzata con il prezioso aiuto della moglie dell’artista, la scultrice spagnola Cristina Iglesias (nel 2009 ha esposto a Milano alla Fondazione Pomodoro in via Solari). 
Muňoz, scomparso a soli 48 anni, ma protagonista da vent’anni della scena artistica internazionale, si definiva “narratore di storie”. Cerchiamo di raccontarne la poetica attraverso Double Bind: opera-capolavoro carica di pathos brechtiano, che fu esposta con successo nella Turbine Hall della Tate Modern nel 2001. Fu quel tragico anno della catastrofe dell’11 settembre, della polverizzazione del World Trade Center a New York, e da questo momento il tema del nuovo millennio diventa la precarietà e la fragilità dell’esistenza nell’epoca della globalizzazione. 
Juan Muñoz Conversation Piece, Dublin, 1994 (detail) Polyester resin, silicon, natural pigment, canvas Variable dimensions HangarBicocca, Milan, 2015 Photo © Attilio Maranzano Courtesy Fondazione HangarBicocca, Milan; The Estate of Juan Muñoz, Madrid
A quattordici anni dall’esposizione londinese, la stessa opera colossale, mai più esposta da allora, si confronta con i 5.300 metri quadrati delle “navate” dell’Hangar Bicocca, e il risultato è destabilizzante, di ricercato spiazzamento percettivo, che trasporta lo spettatore in una dimensione astorica, in bilico tra illusione e realtà, quasi impossibile da raccontare perché va vissuta. 
Vincente Todoli, curatore della mostra e amico di Muňoz, ha agito nel rispetto dell’artista instaurando un serrato e misterioso dialogo tra le sculture con gli spazi industriali e i visitatori, dove un tempo si costruivano treni, macchine e turbine, rispettando la sua poetica, sensibilità “narrativa” e potenzialità performativa dello spazio. 
Double Bind è un installazione complessa, allestita su tre diversi livelli visitabili per mezzo di una piattaforma sospesa nella semi oscurità dell’Hangar: dall’alto si gode di una panoramica inenarrabile, dove tra un pavimento optical, due montacarichi vuoti che percorrono lo spazio verticale, finti cavedi quadrangolari a livello mediano, una serie di ballatoi abitati da presenze inquietanti, singole o in gruppo, create da Muňoz, che sembrano immobilizzate in una “muta” conversazione e in un assordante silenzio.
Questi manichini metafisici surreal-visionari incarnano un senso di smarrimento e l’impossibilità della comunicazione tra l’io e l’altro, inscenano una piece carica di tensione psicologica.
Juan Muñoz Double Bind, 2001 Polyester resin, natural pigment, canvas; two lifts; fiberglass, wood, metal, PVC, water paint, mineral false ceiling, LED, phosphorescent light Variable dimensions HangarBicocca, Milan, 2015 Photo © Attilio Maranzano Courtesy Fondazione HangarBicocca, Milan; The Estate of Juan Muñoz, Madrid
Al piano terra, varcata la soglia d’ingresso, The Wasteland e Waste Land, entrambe del 1986, si riconoscono per la presenza di un pupazzo ventriloquo e per il pavimento di grandi dimensioni  composto da pattern geometrici colorati, figure che creano distanza tra l’osservatore e l’oggetto. I titoli delle opere s’ispirano ai poemi omonimi di T.S. Eliot (1915-1922) strettamente connessi al periodo di crisi esistenziale e distruzione in seguito alla prima devastante guerra mondiale. 
Il ventriloquo è la prima figura antropomorfa rappresentata da Muňoz, il pupazzo non parla ma diventa in ogni caso un narratore di storie di altri autori. Conversation Piece (1996), composta da cinque figure in resina e poliestere incastonate in involucri sferici, evocano corpi imprigionati in  sacchi di sabbia. Queste misteriose presenze dai volti sfuggenti stretti nella morsa di un ghigno perturbante, sembrano interagire fisicamente tra loro, tutto ruota attorno a due personaggi al centro della composizione spaziale e altre sculture. Queste e altre figure immobili danno vita a silenti dialoghi che escludono ogni possibile coinvolgimento emozionale con l’osservatore. La ricerca di divertissement ottici-percettivi minimal-teatrali dell’artista, mettono lo spettatore nelle condizioni di riflettere sul significato del guardare e nel contempo di essere guardati. Con Hanging Figure (1997), Muňoz passa dall’orizzontalità all’indagine della verticalità e sospensione attraverso l’introduzione di figure solitarie come espedienti che amplificano distorsioni percettive: complice  la semioscurità e la fascinazione dello spazio dell’Hangar. Questi corpi appesi a testa in giù con una corda alla caviglia evocano quelli dei giustiziati dipinti nel ciclo Los Desastros de la Guerra (1810-1820) di Francisco Goya (1746-1828). 
Juan Muñoz Many Times, 1999 Polyester resin, natural pigment, canvas Variable dimensions HangarBicocca, Milan, 2015 Photo © Attilio Maranzano Courtesy Fondazione HangarBicocca, Milan; The Estate of Juan Muñoz, Madrid
Conversation Piece, Dublin (1994), comprende ventidue personaggi già esposte nel cortile dell’Irish Museum of Modern Art (1994), anche queste si caratterizzano per strutture sferiche al posto delle gambe e sono sproporzionate rispetto al busto, surreali biglie antropomorfiche, instabili, con occhi chiusi e indifferenti alle persone e allo spazio circostante. Living in a Shoebox (For Diego, 1994), composta da manichini in miniatura seduti all’interno di una scatola per le scarpe che si muove a intermittenza sospeso a mezz’aria su rotaie di un modellino giocattolo per treni, costringono lo spettatore a stare con il naso in su, ipnotizzato a seguire con lo sguardo un circuito claustrofobico. Chiude il percorso espositivo Many Times (1999), tra i maggiori gruppi scultorei realizzati dall’artista, una platea di figure anonime, dai tratti orientali, prive di piedi, che sembrano simili ma in realtà sono tutte diverse. Le loro teste sono modellate da un unico stampo di un busto di una ceramica Art Nouveau del XIX secolo, tutti sfoggiano un ghigno sarcastico irritante, pietrificati in atteggiamenti differenti, in cui lo spettatore, più che in altre opere, da osservatore diventa colui che viene osservato. E qui tutto intorno, malgrado questa “folla” silente, rimbomba lo smarrimento e la solitudine nell’individuo nella nostra epoca. 

Jacqueline  Ceresoli 

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