25 maggio 2015

Marco Di Giovanni doppio e maniacale

 
L’artista inaugura a Imola il nuovo spazio Be.Cube con “l’infinito commestibile”. Mega performance sotto forma di agenda. Ed è al Museo San Domenico con un percorso sulla visione

di

Due valige (Andata e Ritorno, 2012) poste all’inizio del percorso espositivo, ci ricordano come in fondo, nella vita come in questa mostra, sia sempre possibile scegliere se andare avanti o tornare indietro. È con questa riflessione che si apre “Una fine”, la personale che il Museo di San Domenico di Imola dedica a Marco Di Giovanni. Un percorso circolare che comunque si decida di compierlo, conduce sempre ad un unico punto: una strada sbarrata da un blocco di dieci porte (Le Porte di Solarolo, 2010). Su di esse, l’artista ha inserito un piccolo gioco, un sistema ottico di lenti d’ingrandimento che, a mo’ di occhio magico, restituisce lo spazio negato dal blocco di porte in una visione tridimensionale e ribaltata. 
«Ho ricreato una terza retina che confonde il cervello producendo una visione alterata», chiarisce l’artista «ho voluto creare una scultura non da guardare, ma attraverso la quale guardare il mondo». Al di qua de Le porte di Solarolo, si trova Gran Sasso (2014), trentotto Moleskine installate a parete a formare un unico grande disegno della montagna abruzzese: «C’è un’agendina per ogni anno della mia vita e sono tutte aperte nella pagina dei fusi orari dove, a grafite, confondo i contorni del mondo intero per ottenere l’unico luogo a me originario e senza tempo: il Gran Sasso visto da casa mia a Teramo. Ho cercato di riprodurlo con precisione estrema, millimetro per millimetro. È stato davvero un lavoro maniacale. Ma adesso lo possono usare anche quelli del CAI», scherza Di Giovanni. 
Marco Di Giovanni, Una fine, Museo di San Domenico, Imola. Foto di Dario Lasagni
All’intimità di Gran Sasso, fa eco il rumore assordante di un grosso cassone arrugginito, un amplificatore rudimentale, che suona e risuona in maniera assordante sempre se stesso, la sua materia ferrosa: «Per Heavy Pod mi sono avvalso della collaborazione di un musicista, Gianluca Favaron, che mi ha seguito mentre lavoravo, registrando tutti i rumori che producevo. Se si ascolta bene si sente il rumore della lamiera che si spezza o della saldatura dei vari pezzi tra loro. Un grosso oggetto che parla solo di se stesso. Gran Sasso e Haevy Pod, apparentemente antitetici, sono due lavori che esposti insieme si completano in un significato nuovo. In questo suono frastornante c’è un rimando anche al terremoto che ha colpito l’Abruzzo nell’aprile del 2009. Teramo è esattamente dal lato opposto della montagna rispetto all’Aquila. E la differenza è che oggi l’Aquila non c’è più. È stato un evento spaventoso che non potremmo mai cancellare dalle nostre memorie». 
Dai ricordi personali al tempo mitologico, la mostra prosegue con Mjollnirr: tra l’incudine è il martello (2011), un lavoro in cui si mescolano antiche credenze norrene con nozioni di fisica teorica: «La mia è una formazione prevalentemente scientifica», precisa Di Giovanni. «Sono affascinato dalle figure di scienziati rivoluzionari come Nicolò Tesla e Richard Feynman. Così come la fisica ci riguarda tutti nella concretezza del vivere quotidiano, anche il mito è un qualcosa che appartiene a ognuno di noi, che fa parte di una memoria e di una storia collettiva». Scienza e mitologia,  per un attimo, lasciano il posto alla poesia, quella di Verde Luna (2011), un grande tubo in ferro arrugginito che spunta incombente da una parete, un periscopio attraverso il quale guardare il riflesso di una luna artificiale creata dalla sovrapposizione di due cristalli: «Ciò che più colpisce in un lavoro come questo è che il ferro della struttura, nonostante la sua robustezza, è destinato a scomparire, mentre il cristallo, all’apparenza fragile e precario, è eterno». Nell’ultima sala, si ritorna sulla l’idea di circolarità proposta e negata dal percorso espositivo e al riferimento alla mitologia norrena, in lavori come Hari Seldon (2010), il Mandala delle Indie, Ginnungagap (2011) o il Senza Titolo del 2013. 
Marco Di Giovanni, Una fine, Museo di San Domenico, Imola. Foto di Dario Lasagni
Abbandonando la fisica quantistica e i riferimenti mitologici, Marco Di Giovanni incomincia la sua personale riflessione sul cibo e sui limiti corporali. È questo il tema attorno al quale ruota  “L’infinito commestibile”, la seconda personale dell’artista abruzzese allestita al Be.Cube, nuovo centro culturale imolese, che inaugura così le sue attività espositive. Dal 18 maggio 2014 (giorno del suo compleanno) e per un anno intero, Di Giovanni sta prendendo nota e disegnando tutto quello che ingerisce: cibo, medicinali, alcolici, ad eccezione dell’acqua. I lavori, realizzati a china su carta gialla da osteria, invadono lo spazio del Be.Cube – un capannone industriale sapiente recuperato dai tre soci Elena Casadio, Liberto Dalmonte e Marco Badeschi – allestiti su decine di tavoli da trattoria, in una sorta di “autoritratto autoesploso”, come lo definisce l’artista. “L’infinito commestibile” è pensato come una grande performance dilatata nel tempo, raccontata attraverso le immagini in un video in cui si rinnova la collaborazione con Favaron, che ha registrato e rielaborato tutti i rumori prodotti da Di Giovanni durante la masticazione, deglutizione e digestione. Siamo quel che mangiamo insomma, ed è proprio questo il caso di dirlo. 

LASCIA UN COMMENTO

Per favore inserisci il tuo commento!
Per favore inserisci il tuo nome qui