05 giugno 2015

L’Intervista/Olivo Barbieri

 
LE MIE FOTO? DELLE TRAPPOLE RAGIONATE
Di scena al MAXXI i primi 40 anni del fotografo emiliano. Che qui parla di sé, del suo lavoro. E di molte altre cose

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Nonostante Olivo Barbieri sia un fotografo ormai veterano, attivo sin dagli anni Settanta, soltanto ora una sede istituzionale italiana, il MAXXI, ne approfondisce il lavoro attraverso la bella retrospettiva “Immagini 1978-2014”, a cura di Francesca Fabiani e aperta sino al 15 novembre. C’è proprio tutto: dalla sua prima serie, Flipper, alla partecipazione al progetto collettivo Viaggio in Italia insieme a Luigi Ghirri; dagli esperimenti notturni di Illuminazioni Artificiali, iniziati negli anni Ottanta, ai primi fuochi selettivi; sino ad arrivare alla serie site specific, partita nei primi anni 2000 e ancora viva, in cui le metropoli fotografate dall’alto vengono mutate in modellini. Barbieri è anche un grande viaggiatore, come ogni fotografo che si rispetti, e dai fatti di Tiennamen del 1989 non passa un anno senza andare in Cina, a registrare una delle più spaventose e meravigliose trasformazioni del pianeta.
Lo incontro davanti al bar del museo. Anche se esausto per il carosello dell’inaugurazione e in procinto di ripartire per la natia Carpi – origine schiettamente dichiarata dalla tipica inflessione emiliana, soffice e rotonda –  risponde appassionato e curioso alle domande, raccontando di sé, delle sue idee, del futuro, dei suoi ultimi (quasi) quarant’anni di lavoro.
La mostra “Immagini” attualmente al MAXXI è la sua prima retrospettiva istituzionale in Italia: come mai questo ritardo?
«Ho fatto la prima retrospettiva in Germania negli anni ’90, la seconda in Svizzera negli anni 2000, e questa è la prima in Italia, pur avendo fatto spesso mostre su progetti presso istituzioni italiane, non c’è stata mai l’occasione per raccontare il mio percorso ormai quasi quarantennale. Credo che sia un gap curatoriale: quando ho cominciato, i curatori d’arte dicevano che non sapevano nulla di fotografia, e lo stesso dicono gli stessi curatori dopo 40 anni come anche i giovani curatori».
Dipende anche dalla mancanza di un Museo della Fotografia?
«No, i musei della fotografia diventano ghetti terribili, dove ci si infila di tutto, dalla fotografia di moda alla fotografia di sport, di attualità, i reportage, e non vi trovano ospitalità i veri autori, che si occupano di fotografia applicata a una ricerca artistica. 
Olivo Barbieri, Lhasa, Tibet 2000
Che consiglio darebbe a un giovane fotografo oggi?
Difficile. Per un giovane autore adesso parlare di fotografia sarebbe banale, sono talmente tante le tecnologie che ci permettono di produrre immagini. Di fatti il titolo della mia mostra è “Immagini” e non “Fotografie”. Io son partito seguendo la scia di autori come Man Ray e Andy Warhol, mi affascinava come usassero degli strumenti tecnologici per produrre immagini, quando ho iniziato io la fotografia era quanto di più forbito ci fosse per riprodurre l’immagine della realtà.
Il consiglio da un punto di vista culturale è quello di scollegarsi completamente da quel mondo tradizionale della fotografia, assolutamente fotoamatoriale, che si occupa solo di fine print, dove si persegue un risultato puramente estetico, oppure di reportage, legato a una denuncia piuttosto fine a sé stessa, che non risolve il problema e finisce per essere sfruttata dai media. Ecco la difficoltà è proprio cercare di non cadere in queste meravigliose trappole».
Che parte ha la conoscenza della tecnica?
«Duane Michals diceva che imparare a fotografare è come prendere la patente, non è così complicato, bisogna piuttosto imparare il significato, il contenuto, le possibilità che hanno le immagini, che è una cosa meravigliosa perché le immagini sono come la vita come il mondo, e in più contengono il tempo di tutte le vite e di tutti i mondi. Ed è lì che bisogna lavorare. Sembra che ce ne siano tante,  ma in realtà poi…».
Che possibilità hanno le immagini?
«La cosa meravigliosa delle immagini è che tu puoi prendere 1, 10, 1000 immagini e vederle tutte in una volta, contemporaneamente, creando una mappatura di relazioni, quindi concetti, e ragionamenti, e alla fine creare un nuovo alfabeto per capire il mondo, una nuova sintassi. Credo che sia questo che si può fare con le immagini. Se guardi le mie immagini sono un poco delle trappole: sono belle immagini, ma molto difficili, se tu fai attenzione capisci che sotto c’è un ragionamento, e soprattutto c’è un ragionamento tra le immagini».
Uffizi, 2002, da Paintings Inkjet Print on Archival Paper ©Olivo Barbieri
Questa è facile: quanto è difficile fare fotografia in un’epoca talmente inflazionata dalle immagini?
«Questo è un problema. Ne vengono fatte di più, ma ne vengono conservate di meno. In pratica c’è stato un crollo di fotografie stampate e perciò conservate fisicamente, mentre sono tenute su hard disk di cui poi nessuno fa il backup, e probabilmente si sta verificando quella “ecologia delle immagini” che aveva messo tra i suoi desiderata Susan Sontag nel suo libro. La cosa più crudele che sta avvenendo è che gli strumenti elettronici per catturare le immagini della realtà sono diventati un meccanismo per non vivere più il mondo in presa diretta: vedi la gente che fotografa il quadro e non lo guarda né dal vero, e né da casa perché non avrà mai il tempo di guardare tutte quelle immagini. 
E credo che proprio da questa consapevolezza deriva tutta la ribellione degli ultimi tempi nei confronti dei selfie». 
Spesso parlando del suo lavoro sono stati citati capisaldi della fantascienza letteraria e cinematografica come Neuromante di William Gibson, o Blade Runner di Ridley Scott o addirittura Flash Gordon. Quale il nesso con il suo immaginario?
«La fotografia purtroppo da un punto di vista teorico è stata viziata da un testo di Roland Barthes, La camera chiara, in cui parafrasando il Tempo Perduto di Proust, e traslando un’asserzione di Cocteau secondo cui la cinepresa “filmava la morte al lavoro”, si scriveva che la fotografia blocca un momento che non c’è più. Che mi sembra un concetto assolutamente fuorviante al di là del rispetto che si può avere per i due autori:  penso che le immagini portino nel mondo non un momento di morte fermato, ma un momento di vita moltiplicato. Ribellandomi a quel concetto, ho cercato invece attraverso il mio lavoro di immaginare il futuro, non di commentare il passato, è per questo che ci sono questi rimandi alla fantascienza. Così, mettendo insieme varie tessere, si può ragionare per esempio su come diventerà la Cina – dove mi reco almeno una volta all’anno dal 1989 per seguirne le trasformazioni – imitando l’immaginario di Las Vegas, e su come invece si trasformerà quest’ultima. Sono queste le domande che mi pongo, è una scacchiera un po’ più complicata».
site specific_HOUSTON 12, Inkjet Print on Archival Paper 162 x 214,2 ©Olivo Barbieri
Quanto può essere importante l’errore in fotografia?
«Sempre. Io ho fatto due tipi di errori attraverso cui ho trovato il senso del mio lavoro: uno è che mi è capitato spesso di cercare un posto non trovarlo e poi trovarne un altro, che poi è anche una metafora della vita; e l’altro è stato quello di portare al limite quelle che erano le tecnologie che di volta in volta mi erano disponibili per catturare le immagini della realtà. Chissà quanti fotografi avranno scartato le immagini perché gli si è mossa la macchina inavvertitamente: io stesso una delle mie prime foto, in Giappone, ho fatto una fotografia di notte con una posa lunghissima, avevo regolato male il banco ottico e senza saperlo avevo realizzato la mia prima fotografia col fuoco selettivo. Dagli anni ’80 col progetto “Illuminazioni artificiali” ho cercato di capire cosa succedesse con l’uso del colore, portando all’estremo un tempo di esposizione, e mi sono reso conto che la pellicola contiene già i colori non solo di Hopper, di De Chirico, ma anche di Van Gogh, di Cezanne, e uno dei miei più grandi dubbi è se le creazioni di certi autori fossero determinate solo da un iper-gap psicofisico, oppure se queste cose fossero proprio catturabili da un punto di vista retinico». 
Come sono nate le sperimentazioni sullo sfocato e sul fuoco selettivo?
«In fotografia sembra si possa fare tutto, ma in realtà fondamentalmente puoi solo mettere a fuoco o sfocare, fare negativo o positivo, e io ho cercato di combinare questi elementi. Come il negativo contiene la stessa quantità di un positivo, un’immagine sfocata contiene la stessa quantità di informazioni di un’immagine a fuoco. Ho cominciato a occuparmi di quel progetto perché mi avevano interessato molto i quadri completamente sfocati di Gerard Richter: in un mondo così tecnologicamente avanzato l’idea di tornare a qualcosa di non automaticamente leggibile mi affascinava molto. Poi mi sono reso conto che attraverso una deformazione, quando sovrapponi i diversi piani di fuoco e di sfocato, tutto si trasforma, le gerarchie tra gli oggetti cambiano, e così i rapporti cromatici e dimensionali, e tutto sembra un plastico. Da questo punto ho sviluppato il progetto “Site specific”, chiedendomi cosa sarebbe successo, se tutto sembrava un plastico da terra, fotografando da un elicottero. Ho poi provato a mettere queste immagini in movimento e ho fatto i primi tre film in 35 mm e poi in HD. È stata una deriva continua nata dall’esigenza di forzare le possibilità dello strumento».
 Lugo, Ravenna 1982 Olivo Barbieri 1983 da Viaggio in Italia 1984
Come ha organizzato la mostra al MaXXI?
«Con la curatrice abbiamo deciso di dividere tutta la mia produzione in sette parti, selezionando circa 150 immagini per il catalogo, e poi da lì fatto una ulteriore selezione. Ho cercato di essere filologico, conservando i diversi formati originari delle immagini del momento in cui erano state esposte la prima volta. Nonostante lo spazio difficile e pieno di dislivelli, si è creato guardando dal centro un orizzonte visivo di immagini, dove si può scegliere verso dove dirigersi – che è un poco una metafora del meccanismo del mio modo di lavorare, arrivare in una città, e decidere da che cosa essere più attratto, dove può essere il bandolo della matassa. Ho pensato poi di trasformare la vetrata sul fondo, così invadente, in uno dei cieli notturni fucsia di tante mie fotografie, e nella fattispecie ho preso il cielo di una fotografia di Singapore, digradante dal fucsia al grigio dello smog, e l’ho ingrandito nelle dimensioni della vetrata».
Donerà al museo una serie “site specific” sull’Adriatico. Perché il mare?
«L’idea di fare un progetto su quella che si chiama la “città adriatica” è affascinante, soprattutto in un momento in cui il mare è visto solo come un luogo terribile e pericoloso che separa nazioni, e dove muore molta gente cercando di risolvere un problema fondamentale di vita. Vorrei capire come siamo arrivati a pensare il mare come un luogo di morte e non più un luogo di vita, a perdere quella idea romantica del mare come luogo di evasione, di salvezza, di avventura, presente in tutta la letteratura otto-novecentesca da Conrad a Melville.  E anche di conoscenza e di unione con altri popoli e Paesi».

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