14 luglio 2015

Nineties are back!

 
Al Mef di Torino va in scena la prima indagine sul decennio che va dal crollo del muro di Berlino e quello delle Torri Gemelle. E che per l’arte italiana è stato molto vivo

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Gli anni Novanta tornano sotto i riflettori, raccontati dalla mostra “Liberi tutti! Arte e società in Italia 1989-2001” presentata al museo Ettore Fico di Torino e curata da Luca Beatrice e Cristiana Perrella, allora attivissima coppia curatoriale non solo nel lavoro, ma anche nella vita, che oggi si rinterroga su quel periodo insieme ad Andrea Busto, direttore del museo. 
A documentare «l’ultimo decennio per cui ha ancora senso fare una collettiva di italiani», sottolinea Cristiana Perrella, le opere di 63 artisti allestite in ordine cronologico, che dall’atrio del museo, dove troneggia la scritta Ahi Disperata Vita di Mario Della Vedova composta da fiori di plastica (l’opera, del 1989, si intitola però Madrigale) si snoda ad occupare l’intero spazio del museo. «Come definirei gli anni Novanta? Liberi, sperimentali e introspettivi», aggiunge la curatrice, che ha recuperato con un lodevole lavoro filologico le opere fondamentali di un decennio che Marco Belpoliti ha delimitato da due crolli simbolici: il muro di Berlino e le torri gemelle. Demolizioni e rinascite anche per la scena politica di casa nostra, devastata  dal ciclone di Tangentopoli, che spazzò via nel 1992 la Prima Repubblica, per vedere affermarsi due anni dopo il nuovo partito di Forza Italia con il suo leader Silvio Berlusconi, protagonista assoluto della storia italiana dell’ultimo ventennio, capace di trasformare irrimediabilmente il nostro Paese, forse ancor più  e ancor peggio di quanto fece, in un altro ventennio più lontano, Benito Mussolini. 
Massimo Bartolini Senza titolo (Propaggine), 1995 4 stampe cibachrome su alluminio, 3 elementi cm 75 x 50, 1 elemento cm 50 x 50
Ma non solo: gli anni Novanta hanno un volto oscuro, legato al diffondersi dell’AIDS, e uno luminoso, con l’espandersi del world wide web, destinato a modificare per sempre la nostra vita, trasformandoci in cittadini globali. 
E nell’arte tricolore cosa succede? Dopo l’affermazione internazionale dei movimenti come Arte Povera e Transavanguardia, gli artisti italiani si rifugiano in un individualismo consapevole, all’insegna di un fare senza confini, legato ad una sperimentazione a tutto campo, per appropriarsi di linguaggi come fotografia, video, performance e multimedialità, all’interno di una “freschezza culturale” (Beatrice) molto vivace. E di questo clima di “leggerezza pensosa” la mostra dà conto in maniera puntuale e precisa, presentando al contrario una scena ancora molto attuale, e per nulla anacronistica, nonostante il fatto che purtroppo la maggior parte di questi artisti non abbiano ancora raggiunto un riconoscimento internazionale più che meritato. 
Rivedere tutte insieme opere significative come Chance di un capolavoro di Marco Mazzucconi (1990), No Frost (1990) di Liliana Moro, Non ti scordar di me (1993) di Grazia Toderi, You’ll never walk alone (2000) di Elisabetta Benassi o An Embroidered Trilogy (1999) di Francesco Vezzoli, fondamentali tessere per ricostruire il mood di un decennio come un mosaico e scoprire invece lavori meno noti ma preziosi come Bue (1991) di Mario Airò, Il Giardino delle delizie (1994) di Maurizio Cattelan, Sogno di Periferia (1996) di Botto & Bruno sono indubbi meriti della mostra, che figura come un primo tentativo di rilettura di un decennio proteico e multiforme. 
Botto & Bruno Sogno di periferia, 1996 similpelle stampata e imbottita, carta, anfibi, dimensioni ambientali
«Sembra di entrare nel deposito di un collezionista illuminato, che avesse acquistato i migliori lavori degli anni Novanta», dice Stefano Arienti, che apre la mostra con Ninfee (1990): pur in assenza di alcune figure importanti, come Amedeo Martegani, Bernard Rudigher e il collettivo Lazzaro Palazzi, la rassegna regge e si illumina, a tratti, di spunti brillanti e a tratti profetici. Mi riferisco a lavori come Crash (1995) di Eva Marisaldi, composto da alcuni semplici diademi composti da filo di ferro e frammenti di parabrezza distrutti a seguito di incidenti stradali, Il Coccodeista (1997) di Roberto Cuoghi: un autoritratto dell’artista realizzato con i prismi di Pechan, che determinano una visione alterata del mondo o Home to go (2000) di Adrian Paci, metafora della condizione nomadica degli extracomunitari in Europa. «Si tratta di due micro generazioni – conclude Perrella – se la prima si rifugia in un’intimità timida e leggera, che ispira le opere di Arienti, Marisaldi, Moro e Toderi, la seconda esce dal guscio e propone messaggi più forti carichi di ironia, riscontrabili nei lavori di Cattelan, Beecroft, Pivi e Vezzoli». 
Nessuna delle due ha avuto ancora l’onore di essere celebrata con una mostra che vada oltre questa prima ricognizione per documentare con il giusto approfondimento e le risorse economiche adeguate l’ultimo decennio “italiano” in una sede prestigiosa, quale per esempio potrebbe essere il MAXXI, che sulla carta avrebbe proprio il compito di valorizzare l’arte italiana recente, avendo per altro molte opere di questi artisti nella propria collezione. Dunque, a quando gli anni Novanta italiani targati MAXXI? 

Ludovico Pratesi 

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