28 luglio 2015

La vita ci viene incontro senza parole

 
Per tre giorni, 20, 21 e 22 luglio, Joan Jonas ha fatto una performance a Venezia nell’ambito della Biennale che ha dilatato l’idea di essere vivente. Ecco il racconto

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They come to us without a word con questo titolo Joan Jonas ha creato nel Padiglione Usa, una sequenza di disegni, proiezioni, oggetti in cui luce e trasparenza collegano una stanza all’altra. Al centro c’è la natura: le api che impollinano l’aria, i pesci che indicano la funzione vitale dell’acqua, i cavalli che ci riportano alla terra. Da questo bellissimo padiglione, Menzione Speciale della Giuria, appare un avvertimento “dolce”.  La natura, il movimento, il suono, vivono  al di là delle parole. Come se la “fisicità della vita” avesse tutto dentro di sé. Avverte di fare un passo indietro per trovare, nel dialogo tra natura e cultura, il modo per accogliere  “chi ci viene incontro senza parole”, cioè le piante e gli animali. Leggo questo titolo anche come una metafora del dialogo tra uomini e donne, dove il silenzio potrebbe essere un sistema per capirci attraverso la “lettura della mente”, come dice Massimo Ammaniti, cioè tenendo conto dei gesti, dei colori che modificano le espressioni del volto, delle tonalità della voce, prima che diventino parole da scrivere e da leggere attraverso la grafia e gli alfabeti.
Nella performance che Joan Jonas ha fatto il 20, 21 e 22 luglio al Teatro Piccolo Arsenale a Venezia, They come to us without a word  esplicita  il legame tra umani e animali in relazione con la musica di Jason Moran, suonata al piano in scena, e con la bellissima canzone di Kate Fenner. L’altro elemento, già presente nelle proiezioni del Padiglione, è  il dialogo con bambini e bambine di varie età (simbolo di fantasia non preordinata). 
Joan Jonas, They Come to Us without a Word II, photo by Moira Ricci
Nella performance, in relazione con le opere esposte in Biennale, quelle immagini, quelle atmosfere narrative e simboliche si dispongono in una tridimensionalità che accoglie lo spazio scenico e i presenti. Si apre con l’immagine di una strada sterrata, vuota affiancata da alberi. E poi, secondo la grammatica di Joan Jonas, si sovrappongono, si mescolano, si sdoppiano, disegni, immagini, lei stessa, bambini e studenti dello IUAV, dove ha tenuto un workshop durante il mese di luglio. 
Foglie e piante si dilatano su tutto lo schermo fino ad assumere una curvatura, come se le vedessimo attraverso una lente. Il reticolo di un alveare, invaso da una luce rossastra, s’ingrandisce progressivamente fino a farci “entrare” in quelle celle. È un disegno meraviglioso, che ricorda la struttura infinita di segni che la natura contiene. A tratti un sipario trasparente è calato sulla proiezione e così l’ombra, l’evanescenza  diventa “visibile”. La musica sostiene tutto il racconto e trova un punto nevralgico quando Joan Jonas esegue un assolo di campanelli e altri strumenti di scena. Tra lei e Jason Moran al pianoforte si crea un tutt’uno visivo, come se ci trovassimo di fronte a un inedito strumento. Ci sono momenti in cui il gioco di proiezione e di sovrapposizione del sipario crea una prospettiva teatrale esplicita. Appaiono i bambini tutti insieme che si muovono; un’installazione di coni bianchi che ci riporta al lavoro storico di Jonas. 
Joan Jonas, They Come to Us without a Word II, photo by Moira Ricci
La dimensione teatrale in cui è compreso l’assolo di Kate Fenner è intervallata in modo ritmico, da immagini di animali, tra i quali un grande pesce piatto, scuro che occupa tutto lo schermo, mentre cavalli, uccelli, pesci sono spesso  inseriti in sfondi limpidi, rosati. Verso la fine c’è un passaggio che ci riporta all’avvertimento di tornare indietro, di rientrare nella natura che ognuno ha vicino, per sentirsi parte di un tutto. Sullo sfondo scorre la proiezione di un prato circondato da alberi con grandi chiome e davanti Joan Jonas (e la sua ombra) muove una specie di grande remo come se volesse navigare dentro la terra, senza distinguere, mare, fiumi, praterie, montagne. La terra, gli animali, il suono ci vengono incontro senza parole, attraverso segni e figure che ricordano la funzione magica e il primo soggetto della pittura, che come sappiamo furono proprio gli animali. Scrive Joan Jonas nel libretto di scena della performance: «Oggi guardiamo gli animali allo zoo, li vediamo nei giocattoli dei bambini, sentiamo le loro voci registrate; rimangono nella nostra immaginazione come sogni e storie».
Guardare le ombre, le evanescenze che avvengono tra le piante, seguire il volo delle api alla ricerca del polline, capire come comunicano. È questo che Joan Jonas suggerisce mentre “rema dentro la terra”. Le api sono in pericolo e questo fatto coinvolge la nostra stessa esistenza. L’arte ci avvisa che c’è un livello profondo che va vissuto perché  “la vita è bella”, come appare in una cartolina proiettata, perché, come dichiara Joan Jonas in scena, “la fisicità della vita” è la nostra scommessa. 
Joan Jonas, They Come to Us without a Word II, photo by Moira Ricci
In qualche momento la partecipazione degli “attori”, distrae un po’ dal senso simbolico dell’alleanza dell’arte e della natura, che è il nodo di tutta la performance. Un tema che fa scattare una coincidenza espressiva tra Joan Jonas alla Biennale e Henri Rousseau a Palazzo Ducale. 
È immediato vedere nel Doganiere un anticipo della fantasia dirompente che alberi, foglie di aloe, fiori producono in noi. Joan Jonas nelle sue proiezioni ci fa vedere che questa fantasia che è quello che ci rimane, rispetto alla distruzione progressiva dell’ambiente, mentre Rousseau la vedeva come il mezzo per sconfinare dal suo mondo. Così scrive nel 1910: «Non so se voi siete come me, ma quando entro in quelle serre e vedo quelle strane piante di paesi esotici, mi sembra di entrare in un sogno». 
Joan Jonas avverte che la visione, la musica, il tempo naturale hanno la consistenza del sogno anche oggi. Non ci sono più terre esotiche, ma – come lei – ognuno deve munirsi di un remo per navigare nello spazio che collega l’origine del mondo con la nostra temporanea presenza. Comunicare con le immagini, profonde o passeggere, che attraversano le nostre esistenze. Senza parole. Perché le parole del vocabolario mediatico non servono.
Francesca Pasini

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