29 luglio 2015

Tu cosa pensi della scena artistica italiana?/2

 
Qualche riflessione preliminare sul prossimo Forum dell’Arte Contemporanea italiana a Prato

di

Come penso sia capitato a molti degli addetti ai lavori italiani, circa a metà giugno ho ricevuto una email a firma di Ilaria Bonacossa, Fabio Cavallucci, Anna Daneri, Cesare Pietroiusti e Pierluigi Sacco, con l’invito a partecipare al Forum dell’Arte Contemporanea Italiana che si terrà al Centro per l’arte Contemporanea Luigi Pecci di Prato il 25, 26 e 27 settembre, nel quale si discuterà della difficoltà del sistema dell’arte italiano e della conseguente scarsissima presenza di artisti italiani nelle mostre internazionali. Il Forum, mi sembra di capire, sarà organizzato in tavoli di discussione, e l’intento è quello di arrivare a formulare delle proposte per invertire la tendenza. Speriamo. Si tratta senz’altro di un’iniziativa benemerita, ed è il caso di dire meglio tardi che mai. Anche se bisogna aggiungere che sarà la qualità delle esperienze che si confronteranno e dei ragionamenti conseguenti, a produrre dei risultati in qualche modo utili e non, invece, l’ennesima occasione persa.
In ogni caso prima di partire per le vacanze e godere del meritato riposo, mi sono detto che qualche riflessione preliminare fosse utile a chiarire il mio personale punto di vista, oltre che, mi auguro, a mettere a fuoco alcuni aspetti della delicata questione in oggetto.
Come ho già detto e scritto in altre occasioni, non è affatto semplice dire cosa sia l’arte italiana di questi anni, definire i suoi caratteri generali, di stile e di contenuto, ricavandone delle direttrici di ricerca comune, anche fosse più di una. Più che un’impressione, c’è la chiara evidenza di un procedere estremamente individualizzato dei nostri artisti, sostanzialmente privi di un riferimento ad un’identità collettiva, o se preferite nazionale. Un’assenza che molto spesso non è affatto considerata un problema, né una questione sulla quale ragionare, e questo tanto per gli artisti che lavorano in Italia che per quelli felicemente migrati all’estero, tra l’altro in un numero ormai sempre più rilevante. Una situazione quest’ultima che non dovrebbe essere sottovalutata, come invece si sta facendo, e che da sola restituisce il senso della profonda crisi in atto nel nostro sistema, e non solo di quello dell’arte, naturalmente. Immagino che siamo tutti d’accordo nel ritenere, infatti, che l’arte sia più che uno specchio della nostra realtà, ma un elemento decisivo della costruzione di quest’ultima. Perciò se molti artisti abbandonano la realtà italiana o, anche più significativamente, non la considerano un elemento costitutivo della propria riflessione e il suo cambiamento una conseguenza possibile del proprio lavoro, allora bisogna proprio avere il coraggio e l’onestà intellettuale di chiedersene le ragioni. 
Fabio Mauri, Senza Arte, 1990, Spray su vetro
Tanto per fare un esempio recente delle conseguenze di tale stato delle cose, ricordo la risposta di Okwui Enwezor alla richiesta di spiegazioni sulla scarsissima presenza di artisti italiani nella sua Biennale (solo quattro, di cui due morti e due da quasi un ventennio residenti all’estero, appunto): gli artisti italiani sono poco intraprendenti, poco coraggiosi. E vista la direzione tematica della sua mostra, s’intende che lo sono in riferimento alla realtà e al tempo in cui vivono. Parole pesanti e che non possono lasciarci indifferenti, ma che purtroppo hanno avuto conferma nel nostro Padiglione Italia, che ha dato ulteriori certezze a quella convinzione, con l’aggravante di cercare come unico punto di riferimento dell’arte italiana quella memoria al solito e piuttosto banalmente coincidente con il nostro glorioso passato artistico. 
Eppure la nostra realtà di questi anni è molto, molto, problematica, sicuramente molto più di quella dei principali paesi europei. Allora cos’è che c’impedisce di renderla una questione decisiva delle nostre riflessioni? Intendendo con il noi, tanto gli artisti che gli intellettuali nella loro stragrande maggioranza. Perché va anche detto che casi isolati o minoranze, a tutti gli effetti marginali, invece sono molto impegnate su questo versante, senza che però riescano a determinare una riflessione più ampia, collettiva, e con conseguenze in qualche misura tangibili. 
Anche se sono costretto a ripetermi, devo ribadire che la causa, ma non la giustificazione, di tutto ciò sta nell’irrilevanza alla quale è stata condannata negli ultimi trent’anni la cultura italiana tutta. 
 Alighiero Boetti, Le cose nascono dalla necessità e dal caso
La politica degli ultimi decenni, compresa quella di oggi, ha pensato bene che degli intellettuali, degli artisti, la collettività nazionale potesse fare tranquillamente a meno, anzi ha cominciato a smontarne la capacità critica, e la conseguente possibilità d’incidere sulla realtà, partendo dal depotenziamento della scuola, dal degrado dell’università e delle accademie, inaridendo cioè le fonti di approvvigionamento con una strategia degna del miglior von Clausewitz. Come sappiamo tutti, gli anni Ottanta e Novanta hanno visto a perfetta compensazione l’utilizzo sistematico della televisione come veicolo di contenuti sostitutivi a quelli culturali; mentre nei decenni Zero e Dieci del nuovo millennio, l’opera è stata completata dall’upgrade culturale del Made in Italy – moda, design, cucina –, che oltre a divenire “la cultura” rappresentativa dell’Italia, ha l’indubitabile vantaggio di essere un’importante voce di bilancio dell’economia nazionale. Quindi, cari miei, le chiacchiere stanno a zero.
Una strategia che, a dirla tutta, è stata perlopiù inconsapevolmente perseguita dalla politica nella sua genericità, ma che ha avuto effetti disastrosi sul sistema produttivo della cultura italiana, e per quello che ci riguarda in particolare su quello dell’arte contemporanea.
Come sappiamo bene il nostro sistema comprende infatti diversi attori all’opera, in una mutualità complessa e sottoposta ad equilibri molto delicati. Partendo dai musei del contemporaneo e dagli enti-fondazioni come Biennale, Quadriennale e Triennale, fortemente condizionati dalla volontà politica per finanziamenti, orientamenti e direzioni conseguenti, passando per quello delle gallerie e del collezionismo, che non trovando punti di riferimento e di forza nell’ambito pubblico, si rivolgono in maggioranza a quei sistemi forti internazionali dove trovare elementi di certezza sui quali investire. Stessa cosa, più o meno, avviene per i curatori, sempre meno “critici” e destinati a fare da semplice trait d’union tra il sistema internazionale e le richieste interne. Tornando da capo e a chiusura perfetta del cerchio, c’è da aggiungere che per le identiche ragioni gli stessi musei non possono non fare riferimento all’ambito internazionale. Se andate a guardare i programmi espositivi dei musei e delle gallerie più importanti, ma anche le mostre dei curatori italiani più attivi, scoprirete infatti che più o meno il 70% hanno come protagonisti artisti stranieri, esattamente il contrario di quello che accade all’estero. Se un curatore internazionale, un direttore di un museo straniero o di una biennale, appunto, viene in Italia, sarà dunque inevitabilmente condizionato dalla situazione e molto difficilmente si avventurerà alla scoperta degli artisti italiani, poco o per nulla rappresentati in modo convincente dal nostro sistema, con le conseguenze che appunto ci portano oggi a ragionare sulla nostra praticamente nulla presenza nella scena internazionale.
Palazzo delle Esposizioni
Gli artisti italiani, e in particolare quelli di base in Italia, subiscono naturalmente gli effetti negativi del circolo vizioso sopra descritto. La prima conseguenza, quasi un riflesso condizionato, è che anch’essi cercano di diventare più appetibili assumendo quell’internazionalità che finisce ovviamente per apparire troppo generica e poco credibile se misurata all’ambiente, alla realtà, in cui sono. Ma prima di ciò va detto che non potendo disporre con facilità di quello spazio che invece hanno gli artisti stranieri nelle loro realtà, e anche nella nostra, non sono nelle condizioni di sperimentare e verificare la loro ricerca con altrettanta facilità. Forse gli artisti italiani sono poco intraprendenti e hanno poco coraggio a lavorare sulle questioni più urgenti della loro realtà, ma bisogna anche dire che anche per i più interessanti la realtà è spesso poco accogliente, se non respingente. Se confrontate i curricula di molti artisti italiani con quelli degli omologhi colleghi stranieri, appartenenti alla stessa generazione, sarà facile scoprire che questi ultimi hanno esposto in gallerie, musei, ottenendo spesso commissioni pubbliche, prima nel territorio dove vivono e dove si sono formati e lavorano, per poi passare all’ambito nazionale e a quello infine internazionale. Una storia ben diversa da quella degli artisti italiani che proprio sul loro territorio incontrano forti difficoltà ad esporre sin dal primo step rappresentato dalle gallerie, per non parlare dei musei. Taccio per pietà sulle commissioni pubbliche, ove ci fossero. Certo le ragioni sono spesso riconducibili a quanto detto poco sopra, ma se dobbiamo cominciare a curare il nostro sistema, appare chiaro che proprio da questo si deve partire per spezzare quel circolo vizioso, e non agendo in modo occasionale, ma adottando un metodo sistematico. Appare chiaro che decidere di lavorare sul proprio territorio, almeno per il 50%, è infatti il primo passo per ridare credibilità al nostro sistema. Perché se non lo fa chi lo condivide insieme agli artisti, investendoci nei diversi modi e secondo le diverse competenze, perché dovrebbero farlo altri dall’esterno? Non secondariamente è proprio attraverso questo processo che può svilupparsi quel senso di appartenenza culturale e quella capacità critica conseguente che è il viatico non solo alla conoscenza e alla modificazione della realtà, ma prima di tutto alla definizione dell’identità che la permea. 
Naturalmente se tutto ciò è vero, com’è vero, è la definizione di un metodo condiviso a rappresentare la vera possibilità di fare, o se preferite di migliorare, il nostro sistema. 

Raffaele Gavarro

10 Commenti

  1. Ho letto questa notizia con grande interesse ed entusiasmo. Finalmente. Da sei anni, in mille modi, cerco di stimolare esattamente questo confronto. La mia attività è sempre stata vista come uno stratagemma per dare sfogo a manie di protagonismo, per emergere attraverso la critica, cercando di partecipare a quel sistema che criticavo. Non è mai stato così. Il sistema dell’arte contemporanea è mal messo proprio perché ogni critica e ogni proposta sono sempre viste come un modo per emergere e non come stimoli per una crescita collettiva. In questo modo viene promossa la “mediocrità” e nel migliore dei casi l’omologazione pedissequa alla scena internazionale. Nel primo caso se tutti sono mediocri anche la mia presunta mediocrità è al sicuro; nel secondo caso il nome straniero è sintomo di qualità in un contesto critico incapace di fare le differenze fra i contenuti. Nel 2014 su questa stessa rivista ho proposto una ricognizione su tutti i principali artisti italiani emersi negli ultimi 25 anni. E anche quei benpensanti che capiscono Tino Sehgal si sono scandalizzati, perché una critica anche minimamente argomentata fa paura. Quando invece dovrebbe stimolare un confronto sano e inclusivo. Ma probabilmente oggi degli artisti italiani interessa poco a pochi, mentre è da qui che dovremo partire. Solo dall’arte, ossia dai contenuti, può arrivare una speranza.
    Sarò presente a Prato con una riflessione che è già disponibile sul blog Whitehouse. E soprattutto con un progetto concreto ed inedito per cambiare le dinamiche che affliggono il sistema.

  2. Parole parole soltanto parole, come se bastasse la solita litania dei soliti “pensatori” a fare arte, servono opere e artisti il resto è solo un mantra inutile atto a giustificare i questuanti, come dice qualcuno gli artisti mancati fanno i critici o i curatori

  3. Tutto bene. Cito un aneddoto: in breve, ho uno studio in provincia di Milano, a circa 25 minuti di macchina dalla città (non è sui monti, è solo in provincia dove comunque arriva il treno e la metropolitana milanese) ogni curatore, critico, gallerista quando sente che per fare uno studio visit da me deve fare 19 chilometri, preferisce rimandare.
    Un amico inglese che lavora in Inghilterra, ha uno studio a 45 km da Londra, e quando deve fare uno Studio visit la risposta che si sente dare è “ok, dopodomani sono da te”.
    P.s. entrambi abbiamo fatto la stessa università. Le stesse esperienze. Più o meno le stesse mostre.

  4. nulla da eccepire su tutta la linea.
    il sistema non sostiene. non si è rinnovato. è chiuso in sé stesso o forse ancora meglio è imploso, divenendo sempre più autoreferenziale, amicale, relazionale. in pratica viene meno proprio alla sua funzione principe: fare sistema.
    a ciò aggiungerei anche il fatto che gli artisti italiani oltre a guardare il proprio ombelico come sostiene Okwui Enwezor non sono coraggiosi, e ho inteso coraggiosi nel senso di scandagliare non solo la realtà ma interrogarsi su di essa, sulla storia o sulle intime tensioni. Vivendo nell’era della bambagia, molti artisti hanno perso il mordente, l’ossessione di esprimere adagiandosi sulla pratica del dire o forse ancora peggio dell’asserire.
    D’accordissimo quindi con la sessantottina auto-critica del sistema, ma ci aggiungerei anche (un pizzico?) quella degli artisti stessi (non tutti, ma un buon numero sì) che molte volte barcollano nella spasmodica ricerca di trovare essenzialmente un linguaggio nuovo, à la page, o bello (che non ci sarebbe neanche niente di male nel farlo, ci mancherebbe), però poi si distraggono lungo il cammino e iniziano a seguire qualche altra libellula.

  5. Lucida e condivisibile l’analisi di Raffaele, come il suo invito a ricominciare dal territorio.
    Per non restare però riserve indiane di addetti ai lavori che se la cantano e se la suonano tra di loro, bisognerebbe in qualche modo scardinare l’idea, così triste e pericolosamente anacronistica, di una cultura artistica italiana legata principalmente all’archeologia, al Rinascimento e all’antico (forse una osservazione banale, ma purtroppo non si riesce a superare questo empasse).
    È necessario “educare” la popolazione al contemporaneo,e farlo in maniera corretta, o e non continuare ad alimentare l’idea che l’arte contemporanea sia solo un incomprensibile nonsense per ricchi stravaganti.

    Magari non sarebbe male iniziare creando una rete di kunsthalle, gestite in trasparenza da professionisti, che si curassero di promuovere e esporre l’arte contemporanea locale. Penso che nemmeno servirebbero tanti soldi, considerando quanti se ne sprecano per museoni dalla programmazione spesso discutibile.

  6. Gli artisti italiani non ci sono negli eventi internazionali perché le strategie di mercato, che le governano al 60% non trovano figure professioniste ma tanti dilettanti relazionali.

    Ogni due o tre anni qualche gruppo di curatori e critici esce con la solita solfa che non ci sono artisti, strano che gli stessi da anni sostengono e promuovono sempre i soliti nomi, forse cercassero oltre i rapporti di conoscenza e facessero un lavoro più ampio di analisi troverebbero decine di artisti anche di respiro internazionale, ma dovrebbero rivedere le loro istanze “narrative critiche/curatoriali” che andrebbero quasi sempre a ramengo…

    Condivido in toto il problema del sostegno artistico italiano da parte dei tanti curatori e critici che spesso preferisce promuovere artisti stranieri che italiani, cercando così un proprio

    Un esempio molto pratico è Artverona dove lontani da certi rapporti di finta cultura la rassegna cresce con risultati economici molto più autentici di artissima e del miart …

  7. L’arte di oggi in Italia?
    Asimmetrie strumentali e incolpevoli (Nuccio Lo Castro)
    Museo Civico e Pinacoteca
    Reitano, Palazzo Lipari –
    1 agosto / 8 settembre 2015

  8. La situazione dell’arte in Italia?
    ……………..Magnifica!…….. Più sta lontana dalla notorietà e dal mercato, dagli schiamazzi delle gallerie, il cui sfogo nevrotico ed ansimante dei domenicali annaspa e sbava( pagando fino a 700 euro per essere presente alle Minchiate di A.B.O) più nel silenzio e nella passione sofferta, stanno prodigando gli astri futuri “Asimmetrie strumentali e incolpevoli” a cura di Nuccio Locastro, ne sta avviando la ricerca- Ritano-Pinacoteca e Museo CivicoPalazzo Lipari-Messina- 1 agosto 8 settembre 2015-

  9. Bell articolo. Molto lucido. Io credo che sopratutto in paesi in crisi come l Italia vi siano temi d affrontare importanti e spesso scomodi, è probabile che gli artisti coraggiosi ci siano in questo paese, ma proprio per questo vengano oscurati. Il vincolo che la politica ha stretto intorno ad addetti ai lavori e’ marcato, e spetta agli addetti ripristinare le giuste distanze, se non si rappresentano le brutture e mancanze del paese, allora si sta promuovendo svago, rassicurazione e opacità della ragione. Involontariamente si sta promuovendo arte di propaganda, di rassicurazione su uno stato moribondo, senza guardare nel buio non si può trovare la luce.

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