28 agosto 2015

Tu cosa pensi della scena artistica italiana?/3

 
Serve a qualcosa l’arte? E gli artisti a quali compiti sono chiamati? Per esempio ad interpretare il proprio tempo. Ma arte e artisti rimangono inutili. E per questo necessari

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…Tutti siamo stati comunisti ma certe ingenuità ancora mi commuovono.
Mettiamo da parte il comunismo, anzi, ficchiamoci in una chiesa. Sant’Alessio sull’Aventino. Alessio, oggi dimenticato, ma basta vedere sui muri della Basilica di San Clemente la storia della sua vita per capire chi fosse, dimorò per diciassette anni sotto una scala. Preferì non salirla: capì a duro prezzo che la via della speranza è una fuga dall’immanenza della vita, in cui già c’è tutto. Non c’è bisogno di mettere in gioco nessuna chance, è perfetta così. Eppure, pensate quanta ingratitudine verso i suoi insegnamenti! Nella tradizione romana ci si rivolge ancora oggi al santo per avere il numero vincente da giocare al lotto e proprio pregando di fronte a quella scala.
Ho letto l’articolo di Raffaele Gavarro, pubblicato su Exibart il 29 luglio scorso, che cerca con chiarezza e onestà critica di prefigurare i temi e gli intenti che saranno al centro del prossimo Forum dell’arte contemporanea al Pecci di Prato. 
Probabilmente Raffaele ha tenuto conto del breve ma efficace prologo di Pierluigi Sacco che ci parla delle aspirazioni ma anche delle modalità da adottare per ricavare da questo incontro un esito positivo e, aggiungo, meritorio visto l’impegno e la passione che traspare dalle sue parole. Mi auguro sinceramente che ciò accada.
Sempre attraverso le parole di Sacco arriva un secco no alle esercitazioni di retorica e ai narcisismi auto-referenziali. Anche se mi viene da aggiungere che sarebbe in sé già un buon risultato riuscire a tener lontani i soliti falsi profeti, alcuni veri e propri professionisti nel dispensare promesse salvifiche e che, con malcelato narcisismo, parlano ancora di popolo o peggio di armonia pur di ingessare le altrui coscienze con l’intento di non perdere l’esclusività di essere sempre i primi a dire tutti.
Senza queste inutili interferenze si può accedere a questioni di metodo e progettualità condivise. Far appello a un’intelligenza collettiva, dice Sacco,… e la realtà ne uscirebbe modificata, aggiunge Gavarro.
Ma se questo è un punto da cui partire, per le ragioni che dirò, c’è bisogno di far chiarezza. 
Sant'Alessio sotto la scala, Basilica dei SS. Bonifacio ed Alessio all'Aventino, Roma
Se per intelligenza collettiva si intende identificare quella virtù necessaria di cui dovrebbe dotarsi una buona platea, ammesso che ci si riesca, è una giusta ambizione. Anche se testare il range di intelligenza di ogni singolo soggetto è un bell’impegno… 
Altra cosa è elevarla a potenza collettiva, andare dal plurale all’assoluto, e questo è un film già visto, credetemi, un pessimo film. Se c’è qualcosa che veramente abbiamo in comune, ed è inalienabile, è ciò che ci divide, quella distanza che ci fa sentire soggetti distinti perché esposti alla nostra irriducibile singolarità, prima ancora di ogni ragione, regola o convenzione. 
Per non dire che appellarsi a un’intelligenza collettiva con l’intento di ricavare una qualche prospettiva alternativa, va nel segno opposto rispetto ai requisiti imposti dalla condizione nichilista ancora vigente. Il programma di rimozione del senso, che non salva né l’arte né la cultura in genere, impedisce di far valere le ragioni particolari, dunque, ciò che si vorrebbe trarre da ogni forma di condivisione. A monte vince l’atteggiamento, questo sì condiviso, di osservare passivamente la realtà, di subirla, di sopportare l’esistenza ridotta a certezza sensibile.
Strana imposizione, e chi è l’artefice? Come distinguere allora il patimento dal consenso? Il vecchio Marx diceva che la produzione crea il consumatore, non produce solo oggettivamente ma anche soggettivamente. 
Guardiamoci, non ci resta che sperare, scommettere, puntare spostando la meta sempre oltre. Non è forse così? Ogni azione che rivolgiamo al futuro non riesce a toglierci l’illusione di poter superare l’imprevedibilità degli eventi con il solo impegno delle nostre capacità previsionali; un predicato centrale della nostra soggettività radicato in una volontà antica, in un passato che si vorrebbe oltrepassare – questo si – mentre invece continuiamo ad affondare nella sua carne, nei falsi miti dell’utopia, della libertà, gettando la speranza sempre oltre l’umano. 
Rovesciando la famosa frase di Amleto possiamo dire che, non sappiamo chi siamo, ma sappiamo cosa potremmo essere. 
Un immaginario che l’arte, salvo rare eccezioni, continua ad alimentare attraverso l‘assenza di ogni mediazione teorica, lasciando campo libero al senso comune. Qui ha ragione Gadamer quando dice che ciò che deve valere come vero (oggi) tende verso quel che è credibile; lo spettacolo continua, amici, e Debord non è mai nato.
Ma se questa è una condizione che non risparmia nessuno, allora cosa fare? Dico di continuare a essere inutili. In fondo è ciò che da più parti pensano di noi…, ci sarà pur del vero! Con la differenza che dalla nostra improduttività si vorrebbe però trarre un qualche effetto salvifico. 
L’arte non salva nessuno se non se stessa. Lasciamo che parlino le nostre idee. Usiamo il senso che mettiamo nelle opere migliori, è qui che si misurano le intelligenze. Non abbiamo bisogno di negoziare con nessun apparato. 
Albrecht Dürer, Melencolia I, 1514
Voglio precisare che stiamo parlando di un’attitudine singolare, se è vero che l’arte è in sé il luogo della principalità, nel senso che le è propria, le corrisponde, è ciò di cui è fatta. Il fine e le modalità coincidono e in tal senso concorrono a ché l’arte sia improduttiva perché non investe su un futuro in quanto l’inizio e la fine sono da subito assorbiti nel passato. L’arte ha sempre di fronte un passato, un evento concluso perché perfetto. Il futuro non può interessare gli artisti semmai i loro eredi.   
Peraltro, piaccia o meno, questa particolare specie non ha contratto alcun impegno verso gli altri e non per agire indisturbata come se questa non compromissione sia la garanzia della sua libertà o un rifiuto di fare conti con la necessità. È proprio la necessità a indirizzare il cosiddetto estro, o se preferite assillo, degli artisti.
La questione sociale o morale, dell’artista civile, il perfetto cittadino che deve assolvere ai doveri della comunità, l’ho sempre interpretata come un ricatto da parte dei miei detrattori o come un mascheramento, molto diffuso, tra quegli artisti che ricorrono ai valori della morale per cercare soccorso, aggiungere peso là dove ce n’è  troppo poco, come fa il droghiere quando incarta più volte la merce e la lancia con forza sulla bilancia.
È una buona carta, se parliamo di carte, quella della responsabilità morale cui dovrebbe adempiere un’opera. Porta in sé sempre qualcosa di commuovente, di passionale, favorisce la credibilità dell’autore il suo candore; è poco dispendiosa ma fa prodigi. Non ultimo nutre l’aspettativa più diffusa, ovvero la fede nel futuro, la speranza che si possa voltar pagina, aprirsi finalmente un varco per raggiungere la verità che è lì ad attenderci: purché la vita non cessi. Peccato che la verità sia già data e la vita ha in sé la sua cessazione, ma cosa forse difficile a cogliersi, tutto ciò è eterno. Perché si ripete eternamente. Pensate quanto lavoro inutile! 
Ma l’eterno si confonde con l’immortale e questo è il tranello giocato anche dalle avanguardie e dai suoi epigoni.
Le avanguardie, come tutti sappiamo, pensando di scandalizzare i loro destinatari con opere che sovvertivano i canoni convenzionali hanno in realtà fallito. Perché per guadagnarsi quella distanza dal mondo che legittimava il loro programma d’immortalità hanno invece attratto i loro possibili detrattori che si sono rivelati, invece, come i più fedeli alleati. In quanto ha prevalso la promessa di un mondo altro, di un mondo nuovo anche se a prezzo del disgusto suscitato da quelle opere. Così si sono trasformate in un bene su cui investire, un nuovo feticcio per ricapitalizzare l’impegno a resistere alla morte. Nulla di più che una promessa, ma che ha mantenuto intatta la sua efficacia sino a oggi se pensiamo all’ostinazione di certi artisti nel far valere, come fosse un incremento di qualità, certe forme passatiste, nostalgie ideologiche, pur di incrementare il bisogno di futuro sino a rendere più che mai attuale la battuta sarcastica di Paul Valéry: non abbiamo più il futuro di una volta
Ma qualcuno si ostina a chiedersi verso cosa dobbiamo indirizzare le nostre fatiche. Direbbero sempre i passatisti: verso un mondo più giusto, più equo e l’arte avrebbe tutte le energie per impegnarsi, in quanto gli artisti da sempre hanno la capacità di creare. Di modificare, di riparare il mondo, cioè, fare di una cosa un’altra cosa. E io aggiungo: di sperare e far sperare. Questo spiega perché ancora oggi si raccolgono i resti di un programma così nefasto, un mondo impegnato a fare un altro mondo, dunque, un mondo senza mondo che riduce le nostre esistenze a vicarie di altre esistenze; quali e dove non importa. 
Pietro Fortuna

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