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Mentre tutto il set Biennale si prepara per chiudere, per premiare, snocciolare cifre; mentre il toto festival di corridoio dà per vincitori Jerzy Skolimowski, con 11 Minutes – preferito da Gianni Canova fra gli altri, e altri ancora tifano per Laurie Anderson con Heart of a Dog, contro il pregiudizio estetico che senza trama narrativa e senza la pretesa di dire la verità documentaria non si dia un film, fuori dal festival Daniele Segre organizza una passeggiata per dire da che parte stare, per parlare e riflettere sugli immigrati, che diventeranno con la cattiva stagione il vero tema della solita e prevedibile emergenza; dove dormiranno coloro che adesso riescono ancora a dormire per strada, o in spiaggia, o sotto i ponti? Il Veneto è una regione di passaggio e di meta per molti flussi, questo sarà il prossimo grande problema da affrontare. Il giorno perfetto per parlare del film di Massimiliano e Gianluca De Serio, prodotto La Sarraz film con il contributo di Rai Cinema e dal MiBact, I Ricordi del fiume.
Con molta delicatezza il documentario che segue un lavoro di fiction, Sette atti di misericordia, ritorna sul set, le rive della Stura, fra la ferrovia e l’area industriale, nel Platz che per dimensioni è una città rom dentro la città di Torino, oggetto di numerose polemiche. Senza coltivare la mitologia spettacolare e pittoresca del picaro filosofo e maestro di vita, i due registi cercano di rivelare le speranze comuni e i ricordi che i nomadi si porteranno dietro all’atto di un colossale trasloco in coincidenza dello sgombero del campo. Il rapporto fra girato è montato è altissimo, ovvero per sequenze nel film di pochi secondi, ci sono ore e ore di registrazione, utili a stabilire un livello neutrale di ripresa e una reale confidenza. Un saggio quasi antropologico su cosa un nomade si porta dietro, su quale ricordo ha quando deve cambiare non casa, ma di fatto città, perché il Platz è raccontato proprio come un microcosmo, attraversando età, attitudini, desideri dei personaggi-testimoni, costruendo una matrice quasi vettoriale di flussi fra Torino-Stura e le regioni rumene di provenienza. Il tratto distintivo del documentario è quello di conservare il ricordo di un luogo provvisorio e di fatto cancellato non solo dalla memoria collettiva, ma fisica della città; accordando il diritto al ricordo di una popolazione, in qualche modo gli si accorda un diritto di cittadinanza.
Il desiderio è di non entrare nella polemica pro o contro immigrati, pro o contro rom. Piuttosto l’intenzione del film è di conoscere gli abitanti, le loro speranze, i loro timori, per capire che non sono diverse da quelle di tutti gli altri: fare i compiti, andare a scuola, essere cittadini di una città che è la loro casa. (Irene Guida)