01 ottobre 2015

L’Intervista/Angela Tecce. L’ARTE È UNA SOLA!

 
Dal 1 settembre Angela Tecce è Direttore del Polo Museale della Calabria. L’addio a Napoli è occasione per ripercorrere gli ultimi decenni dell’arte in città

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Da Villa Pignatelli a Capodimonte fino a Castel Sant’Elmo, passando per le gallerie di Piazza dei Martiri e Riviera di Chiaia, tra Lucio Amelio, Lia Rumma e i Trisorio, Anselm Kiefer e William Kentridge, Nicola Spinosa e Raffaello Causa. Nelle lunghe giornate di Angela Tecce, «l’arte è sempre contemporanea», come metodo e passione da orientare attraverso la concretezza della ragion di Stato e l’intuizione della ricerca. Il rigore amministrativo, la lungimiranza delle intenzioni, la risolutezza dei toni, i presentimenti molto spesso vincenti, ne hanno fatto il deus ex machina del contemporaneo transitato per Napoli negli ultimi decenni. Dopo la recente nomina a Direttore del Polo Museale della Calabria (dal 1 settembre), nel capoluogo partenopeo rimangono gli equilibri intessuti negli anni di direzione del Museo Pignatelli e del Museo Novecento, le aperture e i dialoghi instaurati con gli artisti più e meno giovani, le iniziative di approfondimento e incoraggiamento. Una struttura costruita pazientemente, i cui meccanismi, ne è sicura, continueranno a operare anche in absentia: «sono un’inguaribile ottimista. Quando si semina, qualcosa nasce!».  
Da subito, il tuo percorso di funzionario della Soprintendenza si è legato al contemporaneo. Come mai questa scelta?
«Mi sono laureata nel 1976, con Ferdinando Bologna, con una tesi su “La nuova Pittura in Francia”. Quando nel 1980 fui assunta in Soprintendenza, Raffaello Causa prima e Nicola Spinosa poi, consci dell’impossibilità di dividere l’arte tra antica e contemporanea, indirizzarono la mia passione verso alcuni progetti, ampliatisi col tempo. Iniziai anche a scrivere sul Giornale dell’Arte, una intensa collaborazione che è durata dal primo numero fino a pochi anni fa. Ovviamente, io seguivo il contemporaneo, mentre Denise Pagano si occupava di arte antica, ed è stata un’esperienza fondamentale perché ero “costretta” a tenermi aggiornata su tutto ciò che accadeva in Campania. Un momento decisivo, di svolta nella mia carriera, avvenne nel 1986, con la direzione del Museo Pignatelli». 
Angela Tecce, Nicola Spinosa e Lucio Amelio alla presentazione della mostra Vesuvius By Warhol, 1985, Napoli
Quali sono i ricordi più vivi di quegli anni?
 «Mi fa piacere ricordare l’esperienza de “L’impassibile naufrago”, la mostra sulle riviste sperimentali a Napoli negli anni ‘60 e ‘70. Esponemmo opere di artisti pubblicati sulle riviste “Documento sud”, “Linea Sud”, “Continuum”, “Continuazione A-Z”, “Made in 1968”, “Uomini e idee”, ed ebbi modo di lavorare con intellettuali come Stelio Maria Martini e Luciano Caruso, arrivando a conoscere una delle emergenze teoriche e storiche, a mio avviso, più interessanti». 
La mostra a cui sei più legata? E quella più difficile da allestire?
«Quella cui sono più legata è “Fuori dall’Ombra”, nel 1990-1991, il primo tassello di quegli studi sull’arte del secolo scorso, a Napoli, che hanno portato all’istituzione del Museo Novecento, nel 2010. Ero ancora Direttore a Villa Pignatelli ma, profeticamente, la mostra si tenne a Castel Sant’Elmo dove poi sono giunta come Direttore, nel 1999. Quella più difficile da allestire è stata “Castelli In Aria”, nel 2000, la prima mostra che ho curato a Castel Sant’Elmo, inaugurata dal ministro Melandri, voluta da Nicola Spinosa e da me, a testimonianza del nuovo ruolo che il Castello doveva assumere nella documentazione del contemporaneo». 
Che importanza hanno avuto i galleristi napoletani nella vita artistica della città?
«L’attività delle gallerie è stata fondamentale perché, per un lungo periodo, sono state le uniche realtà a mantenere viva la presenza dell’arte contemporanea internazionale a Napoli, oltre alle esposizioni tenutesi nei musei della nostra Soprintendenza, come Villa Pignatelli e Capodimonte, dove è nata la prima sezione permanente dedicata al contemporaneo. Con il tempo, il rapporto tra le istituzioni e i privati si è sostanziato, basti pensare alle tante mostre allestite a Capodimonte sia nell’ambito degli Incontri Internazionali d’Arte, con le esposizioni di Kounellis, Paolini, Mario Merz, Pistoletto, Kosuth, sia con il supporto dei galleristi napoletani, con artisti come Kiefer, Kentridge, Gilbert & George, Ettore Spalletti. “Castelli in aria”, nel 2000, a Castel Sant’Elmo, faceva il punto dello stato dell’arte a Napoli in quel momento storico, proprio grazie al proficuo rapporto costruito con le gallerie più importanti della città, sia quelle storiche che quelle recenti. Questo rapporto si è rinsaldato grazie all’attività del Museo Novecento. Infine, “Rewind. Arte a Napoli 1980-1990”, nel 2014-2015 e sempre a Castel Sant’Elmo, è incentrata, tra gli altri argomenti, proprio sulla vivacità delle gallerie e degli altri spazi espositivi attivi in quel decennio». 
Sol LeWitt, Forme di righe in bianco e nero, 1988, Napoli, Museo di Capodimonte
Cosa è cambiato e cosa è rimasto uguale nel sistema dell’arte da quando hai iniziato ad adesso? Cosa sta per cambiare? 
«Nel passaggio dall’istituto universitario, nel quale avevo gravitato anche dopo la laurea, alla Soprintendenza e, dunque, al lavoro museale, è stato sicuramente entusiasmante la possibilità di sperimentare una vicinanza con le opere d’arte che, all’epoca, era anche “materiale”. Erano gli anni delle grandi mostre sul ‘600 e sul ‘700 e viaggiavamo molto, studiavamo e allestivamo a stretto contatto con gli studiosi stranieri, con i restauratori, con le maestranze ancora presenti nei musei, con i curatori delle istituzioni museali di tutto il mondo che prestavano le opere. Era un diverso modo di capire e, per me, proveniente da studi di filosofia, rigenerante! »
Un episodio che ti fa particolarmente piacere ricordare. 
«La mostra “Vesuvius by Warhol” a Capodimonte, nel 1985. Il rapporto con Lucio Amelio, con l’altro curatore Michele Bonuomo e, sempre sullo sfondo, la condivisione di un progetto con Nicola Spinosa. Ma, soprattutto, la realizzazione di un mio sogno: come nelle gouaches, le vedute della tradizione partenopea, anche Andy Wharol, l’artista della serialità, si piegava al fascino dell’immagine sconvolgente del Vesuvio in eruzione».
Angela Tecce, Daniel Buren, Bruno Corà durante l'allestimento della mostra Indizi di un’opera in situ, 1987, Napoli, Museo di Capodimonte
Nella tua esperienza, quanto coincidono vita e lavoro?
«Non c’è mai stata soluzione di continuità, altrimenti, con i nostri stipendi e le difficoltà che sempre abbiamo attraversato, non avrei potuto reggere. Solo la passione può farti essere visionario! E, a volte, qualche visione prende forma».
L’arte riesce ancora a stupirti? 
«Spessissimo! Non credo alle previsione catastrofiste, ormai sconfessate dal tempo, della morte dell’arte. E poi, rispetto a qualche decennio fa, mi sembra che l’abbandono delle ideologie, l’abbattimento di confini disciplinari, abbiano vivificato e allargato i confini delle sperimentazioni, sia in senso geografico che metaforico. Insomma, mi sembra che ci sia spazio per un coinvolgimento di più piani, da quello intellettivo a quello emotivo. Ma, forse, mi commuovo più oggi di quanto non facessi quando ho iniziato».
Pubblico e privato sono ambiti sempre più confusi. Credi che nel sistema dell’arte questa coincidenza possa produrre risultati positivi? 
«Qui torno con i piedi per terra e, più che altro, penso che ormai la sinergia sia l’unica possibilità per un futuro di crescita e sviluppo dei nostri beni culturali, espressione abusata ma sempre opportuna quando si parla delle nostre ricchezze, identificabili non solo come manufatti e opere d’arte storiche, ma anche come creatività e idee. Inoltre, la mia esperienza in questo ambito è positiva, sono stata sempre sostenuta nei miei progetti dalla fiducia di qualche imprenditore illuminato».
Vesuvius by Warhol, veduta della mostra, 1985, Napoli, Museo di Capodimonte
In Italia, musei di rilevanza mondiale e siti di fondamentale importanza storica e culturale sono costretti all’arte di arrangiarsi e il tanto chiacchierato Art Bonus e le sponsorizzazioni sembrano non cambiare la situazione. Cosa ne pensi?
«La cosiddetta sponsorizzazione è ormai un concetto superato, bisogna stabilire piani di condivisione strategica e programmatica tra pubblico e privato. Anche qui c’è molto da fare, ma conosco la complessità del problema. Comunque, le regole sono necessarie e la deregulation non è la soluzione».
Non posso non chiederti un parere sulla recente questione delle nomine dei nuovi direttori.
«Un rinnovamento dell’apparato gestionale del nostro Ministero era necessario. Dal mio punto di vista di funzionario, prima di giudicare, aspetterò che questa trasformazione così radicale cominci a funzionare a pieno regime. In particolare, con nuove e necessarissime assunzioni. Una piccola provocazione: attendo nomine di giovani. Da anni siamo riusciti ad andare avanti solo grazie a giovani volontari, sottopagati, tutti bravissimi. Uno sfruttamento di massa!».
Che esperienze e speranze porterai in Calabria? Continuerai a dedicarti al contemporaneo?
«Studiamo l’arte e la valorizziamo ma guardandola, sempre, con i nostri occhi di contemporanei, perché l’arte è una sola!».
Mario Francesco Simeone

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