29 settembre 2015

Parlare, e bene, per immagini

 
Scripta manent. E il ruolo dell’Imago? Una mostra indica la fotografia come vero e proprio linguaggio contemporaneo, complementare alla parola scritta. Ma molto più universale

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Esiste ancora chi la snobba, relegandola alla serie b delle vituperate arti minori. Non vanterà lo stesso peso storico della pittura, ma la fotografia il suo diplomino di “forma d’arte” se l’è guadagnato nel tempo, e nemmeno senza poca fatica. Ormai da anni perciò si comporta proprio da brava opera d’arte, ha imparato il ruolo, e come tale si fa accettare sempre soggettivamente, e via via apprezzare, denigrare, non considerare. Nel mentre va in cerca di contatti con la sorella maggiore, a volte punta al travestitismo per fingersi come lei; o può essere semplicemente sé stessa, nudo e crudo contenitore per qualcosa da dire, catapultando in racconti più o meno condensati. Poi sfodera la sua marcia in più nella possibilità di contare su un linguaggio tassativamente oggettivo, potendoselo giocare come meglio crede. Cosa che la pittura si sogna. 
Fotografia, un caso riaperto alla Fondazione Remotti di Camogli, dove si è deciso di sviscerarne la correlazione tra peso visivo e valore mediatico, ma anche di evidenziare la spiccata eterogeneità di un mezzo che, come lo vedi lo vedi, difficilmente riesce a scrollarsi di dosso la sua indole comunicativa. Senza fotografia perciò il Festival della Comunicazione, che la cittadina rivierasca ha organizzato quest’anno per la seconda volta, sarebbe monco. Zoom – Fotografia italiana (fino al primo Novembre) è una mostra che butta lo spettatore nel mare magnum degli artisti dell’obbiettivo, senza farlo naufragare, ma anche senza cronologie o percorsi di nessun genere da seguire. «L’idea era di mischiare liberamente le varie generazioni, non di metterle direttamente a confronto», svela la curatrice Francesca Pasini, esponendo fotografi presenti nella collezione Remotti e chiamandone a rapporto degli altri. Con un approccio aperto, lasciando la scelta dell’opera alla discrezionalità degli artisti invitati, cui la curatrice ha chiesto di portare in mostra «un’opera che desiderassero far vedere», garantendo oltre a quell’imperdibile eterogeneità nella padronanza e sviluppo del mezzo anche una varietà tematico-funzionale. 
Ugo Mulas – Lucio Fontana buca una tela – 1966 – courtesy Fondazione Remotti
La fotografia balla da sola. Vale per Gabriele Basilico concentrato sulla decadenza architettonica di Cambrils, ma sa entrare pure in un passo a due con la performance, con un senso documentaristico hic et nunc ancor più marcato che per Basilico. Esemplari sono le presenze di Cesare Viel, alias Virginia Woolf in To the Lighthouse, e Vanessa Beecroft; con vena più eclettica, e con valore documentaristico modificato, anche di un Nico Vascellari che lancia la fotografia verso il sogno dell’installazione. È per lui tutta la parete di fondo al pian terreno, una composizione di trenta cornici verticali dalle dimensioni variabili, sfilza di piccole istantanee in cui l’artista veneto regala l’euforica partecipazione del pubblico presente alle sue adrenaliniche performance; immagini in sequenza che nel loro susseguirsi verticale divengono brani di una pellicola zeppa di dettagli e situazioni, che scorre fingendo d’incepparsi quando uno o più scatti non sono disposti per il giusto verso. Nota a margine: il performer fa doppiamente bene alla fotografia, la rende un prodotto immersivo nella sua persistenza infinitesimale e, passando l’obbiettivo dal fulcro scenico (la performance) a ciò che non lo è (il pubblico), la costringe a essere appendice del linguaggio visivo, testimone a 360 gradi. 
Gianni Berengo Gardin – Beaubourg – 1998 – courtesy Fondazione Remotti
Eccellente testimone di un’arte osservata dal retropalco è stato Ugo Mulas, che con sapido dosaggio luci/inquadratura porta in scena la mano di Lucio Fontana, spazialista armato, intento a bucare la tela; qualità da thriller per un gesto in verità piuttosto ingessato, pronto dagli anni Sessanta per essere congelato e donato ai posteri. Più spontanei Leo Castelli e Claes Oldemburg di fronte al “telefono molle”, dritti davanti all’obbiettivo e persi in due sguardi indirizzati altrove, l’altra faccia dell’arte immortalata dal fotografo lombardo e che tuttavia la mostra espone a “distanza di sicurezza” dall’artista di Rosario. 
Alla voce “fotografia italiana” Mulas è immancabile tanto quanto Gianni Berengo Gardin, sempre immerso in un’ispirazione documentaristica che assume caratteri d’artisticità; la piccola istantanea Beaubourg ne è riprova, con la sua descrizione di una quotidianità sfuggente che si mescola al valore artistico di un’architettura – il Centre Pompidou – inquadrata a mo di trattato neoplastico.
Il paesaggio (urbano) immerso in una tipica brillantezza cromatica – un po’ metafisica – è cosa di Olivo Barbieri, sei elementi in riga che rileggono l’Experience Music Project di Seattle e scivolano nel loro mix nitido/fané, a detta della curatrice assumendo un «andamento musicale», coerente col soggetto. Più pacato il vicino Luigi Ghirri nell’osservazione prospettica del laghetto di Versailles, evergreen che non sfigura mai in mezzo a nuove generazioni di maghi dell’obbiettivo. Riesce bene in tutte le sue manifestazioni Giovanni Ozzola, fotografo incantatore di un potente blu mare e azzurro cielo nello splendente Meloria, mentre aggrediscono il concetto di paesaggismo fotografico i Paesaggi strappati (America) di Antonio Rovaldi, che modifica la percezione dei luoghi giocando con l’illusione prospettica insita nel mezzo fotografico.
Antonio Rovaldi – Paesaggi strappati (America) – 2009 – courtesy l'artista
La lista degli invitati è lunga, con molti lavori che anche da soli varrebbero il prezzo di una capatina in riviera, pure fosse brutto tempo. Per finire vogliamo proporvi quindi una personalissima sintesi, “in e out”, due nomi che in qualche modo possono andare a chiosare questo zoom sulla fotografia italiana. È “in” l’incantevole e non banale luce fissata da Luisa Lambri, accecamento immediato che appena prima di poter catalizzare lo spettatore s’è già trasformato nell’approfondito studio delle superfici in cemento; è “bello ma non balla” – ovvero “out” – Stefano Arienti, colpisce ma non spicca con l’ispirazione pittorica dei suoi graffi un po’ manierati e il ricorso a immagini pop mediamente convincenti, in un dittico che, congiunto per l’occasione, forse risente di poca funzionalità. 
Ora cercate i vostri, essendo consapevoli che «l’arte può far fare associazioni improbabili e arbitrarie», come giustamente confessa la Pasini raccontando della scelta di posizionare fianco a fianco Ghirri e un Rumore di fondo di Marina Ballo Charmet. Buona “tana libera tutti”.
Andrea Rossetti

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