09 ottobre 2015

L’intervista/MASBEDO

 
UNA GRAMMATICA EMOZIONALE
La videoarte che guarda al cinema e viceversa. In anteprima il loro ultimo progetto, con colonna sonora d’eccezione

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Mettere insieme in una sola narrazione video, audio, scultura, e una live performance con la partecipazione dei Marlene Kuntz. Succede quando una certa videoarte consuma i suoi (ormai troppo stretti) confini, indicando nuovi territori da occupare e riconoscere, mescolando produzione visiva e performance. È questo il duo Masbedo – composto da Nicolò Massazza e Iacopo Bedogni: quindici anni di carriera, una presenza alla Biennale d’arte di Venezia (2009) e diverse partecipazioni a festival internazionali del cinema e rassegne di teatro contemporaneo. Sinfonia di un’esecuzione, primo progetto con la curatela del neo direttore Gianfranco Maraniello e Denis Isaia, è presentata al Mart come una mostra in tre momenti, storia sublime di una natura onorevolmente sacrificata all’atto distruttivo/creativo dell’uomo. «Sin dall’inizio abbiamo voluto creare una sinfonia della natura, dell’uomo che crea e distrugge», racconta Nicolò Massazza, uno dei due componenti d Masbedo che risponde alle nostre domande. 
In un’intervista del 2009 avete definito l’essenza dell’arte come “gridare pericolo, tastare il nervo, schiacciare nella piaga”. Quali nervi tocca la Sinfonia di un’esecuzione?
«Il nervo che viene toccato è nascosto dietro ad un simbolo. L’esecuzione di un albero secolare che viene abbattuto per fabbricare violini: un processo di distruzione a cui segue una creazione. Spesso l’arte si nasconde dietro quella sua componente che è la pulsione distruttiva, ma non basta la distruzione, bisogna dare forma al caos. C’è una frase del boscaiolo della Val di Fiemme che ci ha molto colpito: “Fa molto più rumore in sette minuti un albero che muore, che due milioni di alberi che stanno crescendo”. Abbiamo dato grande attenzione a questa “esecuzione”, per poi raccogliere tutte le sfumature e l’intimità di relazione tra il boscaiolo, la distruzione e l’albero. Questo ha condizionato anche l’inquadratura. Per la prima volta abbiamo girato pensando le immagini in base ai suoni».
MASBEDO, Sinfonia di un'esecuzione, 2015, un progetto per il MART di Rovereto, ©MASBEDO
Nella vostra carriera le collaborazioni con compositori e musicisti sono una costante. Com’è nata quella con il gruppo di Cristiano Godano? 
«La scelta di collaborare dipende dal progetto. Per noi il suono è fondamentale e nei nostri lavori abbiamo sempre sperimentato sonorizzazioni molto particolari. L’incontro con Gianni Maroccolo, nel 2007, è stato decisivo, perché ci ha educato al gusto del rischio della performance dal vivo. L’anno dopo è nato GLIMA, con le musiche dei Marlene Kuntz (oggi proiettato sulla facciata del Museum of Contemporary Art di Zagabria per la mostra Capolavori dalla Collezione Farnesina. Uno sguardo sull’arte italiana dagli anni Cinquanta ad oggi, ndr). Con i Marlene Kuntz siamo molto affini, ci capiamo. Noi non ci diciamo tanto, saliamo e andiamo sul palco, ma con un’idea molto precisa sugli argomenti della performance». 
Questa è una mostra scomposta: prima installazione audio-video, poi live performance con i Marlene Kuntz e infine una scultura audiovisiva che farà da sintesi e verrà presentata il 18 Ottobre. Come avete concepito la successione di queste tre fasi? 
«Era troppo affascinante per noi l’idea di fare un lavoro progettuale prima, un gesto improvvisato – quindi performativo poi, e infine partire dal rischio dell’errore e del confronto con il pubblico per estrarre un terzo lavoro da quello che succederà sabato sera al teatro Zandonai. La tensione è molto alta e l’idea è di creare un’immagine finale che avrà dentro la musicalità, ma senza sonoro. La tematica di base che connette tutte e tre i momenti è senza dubbio la natura, la natura dove vengono fatte esecuzioni». 
MASBEDO, Sinfonia di un'esecuzione, 2015, un progetto per il MART di Rovereto, ©MASBEDO
Dall’Islanda alla Val di Fiemme. Nella vostra ricerca estetica la natura, disabitata e potente, è sempre protagonista. Ma in questo caso sembra una presenza più passiva. 
«Si, è vero. Anche nell’ascoltare la sua voce, si potrà percepire come sia passiva ma allo stesso tempo forte e presente. È un’idea romantica, quella di poter modellare la natura e crearne qualcosa. Probabilmente, rispetto al prossimo futuro, questo sarà il progetto che chiude il nostro grande lavoro sulla relazione dell’uomo con la natura. Ed è anche una bella testimonianza finale: per la prima volta la natura si consegna lasciandosi manipolare».
Secondo Bill Viola ciò che più conta per gli artisti oggi è “fare arte con ogni tipo di strumento, ogni tipo di tecnologia, ogni tipo di immaginazione di cui si dispone. Viviamo in un’era dove non esiste limite o confine – non c’è distinzione di genere per fare arte”. Il vostro è un continuo lavoro al confine tra videoarte e cinema, cosa si cerca in questa terza strada ancora così difficile da definire?
«È un territorio dove non ci sono certezze, ma dove per gli artisti c’è spazio per creare del nuovo, così come per i curatori e i critici disposti ad avere un’altra ottica di confronto con l’opera. Noi – è un po’ presuntuosa come cosa – crediamo che in quel territorio ci sia spazio per un nuovo spettatore, in grado di poter recepire gli argomenti più profondi, strani, concettuali dell’arte, ma anche avvicinarsi verso il teatro e verso un certo tipo di cinema». 

MASBEDO, Sinfonia di un'esecuzione, 2015, un progetto per il MART di Rovereto, ©MASBEDO

In termini di ricerca finalizzata al lavoro artistico, che cosa prendete dall’arte e cosa dal cinema?
«Dall’arte prendiamo l’urgenza, la libertà di fare e di rischiare. Dal cinema prendiamo la forma, che è anche contenuto, il saper costruire un’immagine. E dal teatro prendiamo il pathos. Negli ultimi cinque anni stiamo lavorando molto sulla performance, ci affascina che la costruzione precisa e studiata dell’immagine si mescoli con una dimensione performativa, per cui è sempre buona la prima. Lì in mezzo è dove abbiamo voluto vivere, la tensione su cui vogliamo lavorare, fuori dalla zona di comfort. Quello che io mi chiedo è perché non aprirsi a questa nuova direzione. Si può pensare che forse, oggi, non è detto che devi per forza conoscere Duchamp per avvicinarti alla nuova arte? Non sarebbe utile conoscere un’altra grammatica del visivo? Un’altra cosa di cui non riesco a convincermi: sembra che nell’ambiente dell’arte l’apparato emotivo non sia più richiesto – cosa a cui io non credo per niente. E penso che vedere questa istallazione e sentire i suoni degli strappi degli alberi – una sorta di macellazione interna – suggerisce che si può lavorare anche sull’emozioni, sul coraggio delle emozioni».
Roberta Palma

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