30 ottobre 2015

Vita dopo la morte di Pier Paolo Pasolini

 
Abbiamo chiesto a un artista italiano di scrivere su PPP. Non volevamo un ritratto. Ma il senso che una figura come Pasolini può avere oggi per lui. Ecco la sua testimonianza

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C’è una frase di Pier Paolo Pasolini che ultimamente mi trovo a ripetere quasi ossessivamente. È una breve definizione che si può trovare in Una disperata vitalità e dice: «La morte non è nel non poter comunicare, ma nel non poter più essere compresi». Non la cito quasi mai in modo pianificato, ma nel flusso dei pensieri, diventa la chiave, la sentenza, su tutto quello che sta succedendo attorno a me, sul piano politico e culturale. Mi torna alla memoria, per esempio, tutte le volte che qualcuno dice: «premetto che io di arte contemporanea non ci capisco niente», e cioè tutte le volte che inizio un discorso con qualcuno che non appartenga alla cerchia di quelli che, di contro, “credono” di capirci qualcosa. 
In quell’istante, comprendo una cosa precisa e per me determinante: che l’arte è morta. E di solito è da questa iniziale consapevolezza che devo poi continuare il discorso appena cominciato. Una partenza in salita, insomma. E quella frase, col suo portato oracolare, torna ancora tutte le volte che, con ciò che resta del popolo, provo a parlare di politica in un momento in cui nessuna idea di Paese, nessuna posizione filosofica, sembra sostenere l’attività riformatrice del legislatore. E, più o meno, sempre, quando si giunge al punto critico di una riflessione sullo stato di salute di questa nazione, il poeta di Casarsa sembra aver già previsto tutto. Pasolini per la cultura italiana ha ricoperto il ruolo più scomodo, quello del profeta. Negli Scritti corsari, nelle Lettere luterane e in altri brani da testi, interviste, articoli, poesie c’è la storia d’Italia dal 1975, cioè dall’anno della sua morte, ad oggi. Ma c’è anche qualcosa di più: l’anticipo che ci avrebbe permesso di attivare delle contromisure. Ma i profeti, fin dai tempi dei greci non sono mai stati particolarmente amati dal potere come dal popolo, che li ha esiliati, incatenati, ridotti al silenzio in un modo o nell’altro, senza per questo poi riuscire ad impedire alla Storia di fare il suo corso così come predetto. La fine della civiltà italiana, che è stato uno dei punti chiave della prosa pasoliniana a cavallo tra gli anni ’60 e ’70, si è compiuta davanti ai nostri occhi come un rito sacrificale pagano, come l’autopsia della giraffa e del leone svolta recentemente davanti agli occhi stuprati di un gruppo di bambini in uno zoo di Copenhagen. Il vero fascismo televisivo, riconosciuto in tempo, e poi deflagrato nella sua deriva piduista, ha trasformato gli abitanti di questo Paese nell’esercito di Teletubbies che ha lentamente conquistato tutte le posizioni sopraelevate da cui è più facile diffondere i propri «Achtung! Achtung!». Tutto questo era già stato scritto. E abbiamo lasciato che si compisse.
Pasolini e Maria Callas

Potrei continuare con questo ritratto storico di Pier Paolo Pasolini. Ma, forse, meglio di me potrebbe fare un professore che sa citare con precisione date e fatti, ben disposti su una mappa scientifica di connessioni dimostrate e documentate. Per me, invece, tutte queste parole, questi fatti, sono mescolati in una striscia di tessuto connettivo e nervoso che si chiama vita, e che ama confondere i piani in una verità umana che, forse, per alcuni di noi avrà più importanza di quella storica. Ecco, in questa prospettiva, io non posso che parlare di Pasolini come di un compagno di strada, di qualcuno che, forse da quarant’anni non può più comunicare usando un microfono, una penna, una macchina da presa, ma che resta ancora vivo, più moderno di ogni moderno, perché può ancora essere compreso più dei molti di noi, artisti, intellettuali, o peggio pretesi tali, che si ritrovano tra i denti solo parole rotte o, nel peggiore dei casi, parole vuote.
Potrei, allora, parlare di lui come Pippo Delbono nel suo libro Racconti di giugno parla del suo primo amico-amante, da cui ha ricevuto in eredità la passione per il teatro che poi è diventato la sua vita e l’HIV che è ancora oggi il nemico da tenere a bada. Potrei parlarne nel modo in cui Pedro Lemebel in un suo racconto ricorda la notte passata accanto al compagno di liceo che cantava Città solitaria di Mina mentre aspettava l’attacco di un gruppo di giovani fascisti. Potrei parlarne come Jack Kerouac parla di Allen Ginsberg ne I vagabondi del Dharma. O potrei farlo nel modo commovente in cui a Venezia, quest’anno, Franco Maresco ha raccontato la vita di Franco Scaldati, saldando, con il film Gli uomini di questa città io non li conosco, il debito che lui e la sua generazione siciliana avevano col grande poeta e drammaturgo, ma prima di tutto amico, morto in miseria due anni fa. E credo che sia questo il modo in cui ognuno possa scrivere la sua versione della vita di Pier Paolo Pasolini. E forse, appunto, anche io potrei parlarne come di qualcuno che in un modo o nell’altro mi è stato sempre accanto, che mi ha protetto, che si è battuto per salvarmi la pelle tante volte, con quel corpo nervoso, con quella forza da leoni che aveva e che non è bastata, proprio quarant’anni fa per difenderlo da chi voleva metterlo a tacere senza però riuscirci. 
In pericolo mi sono sentito spesso. È successo tutte le volte che qualcuno ha tentato di ridurre la mia libertà di intellettuale, la mia libertà di amare ogni cosa e anche la sua contraddizione, la mia ferma volontà di essere ciò che fin dai greci – tanto amati proprio da Pasolini – un intellettuale è sempre stato, ossia un allenatore dello spirito per la polis che oggi è diventata mondiale. 
Nella mia vita ho fatto il giornalista, il critico, il regista, il produttore, lo sceneggiatore, l’artista visivo, il curatore. Ed è da quando ho 18 anni che mi sento dire, con aria di rimprovero, che avrei dovuto fare delle scelte, che se avessi continuato così sarei stato messo da parte. E accade ancora, perché talvolta “mi permetto” di scrivere le mie opinioni sui giornali senza limitarmi ad essere un “pittore”. Se non ci fosse stato Pasolini, se non si fosse battuto per me con il suo esempio, forse quando ero ancora un ragazzo, mi sarei lasciato convincere a smontare uno dopo l’altro i pilastri della mia identità, finendo per tacere non perché minacciato, ma perché sabotato, come sabotata è stata la cultura di questo Paese negli ultimi trent’anni, proprio disconnettendo uno ad uno tutti i legami tra i diversi comparti del pensiero. 
Accattone, 1961
Se oggi, invece, sono un poeta, se m’incanto a indagare l’identità di Dio pur essendo un comunista, se voglio ancora parlare con gli altri, con tutti gli altri, usando ogni mezzo a mia disposizione, se ho il coraggio di scendere nelle strade di periferia in cui si spara coperto solo dal candore del mio lavoro, invece di barricarmi nella sordina dei musei o delle gallerie, se sono un artista di questo tempo e non un dandy reazionario, è perché quel 2 novembre del 1975 Pier Paolo Pasolini non è stato ucciso. È rimasto, anzi, a difendere me e quelli della mia generazione che avevano bisogno di un fratello maggiore che li tenesse “in vita”, ancora capaci di essere compresi perché fermamente determinati a voler esserlo, lontani dal baratro del servilismo verso il potere che ha trasformato gran parte della cultura italiana in un circo funebre di scimmie ammaestrate. 
Oggi, dopo 40 anni le sue parole oracolari sul presente non hanno smesso di poter essere comprese e usate per difendersi. E restano una eredità essenziale per il futuro, perché ci sia un futuro. E, forse, il valore della sua opera sta proprio in quel che ho scritto fin qui, nel fatto di non essersi limitato a fare il ritratto delle cause che dagli anni ’50 ai ’70 si sono generate per produrre poi gli effetti che oggi riconosciamo in ciò che siamo diventati, ma nell’aver testimoniato quella voglia di battersi, di non arrendersi di tirare pugni fino alla fine, proprio come in quella sera all’idroscalo di Ostia. Battersi è stata l’ultima azione della sua vita e la prima che ha insegnato ad ognuno che ne ha raccolto l’eredità. Ecco, è di questo Pasolini che posso parlare, di qualcuno che mi è ancora vivo accanto, più vivo dei molti che mi passano accanto ogni giorno, dei molti che mi telefonano e forse anche dei pochi che come me girano ancora per la Tuscolana come pazzi, per l’Appia come cani senza padrone, incontro ai fratelli o agli Alì dagli occhi azzurri. Di noi, pazzi come cani, forse fratelli dei cani, con gambe abbastanza forti per la solitudine, ma ostinatamente e volontariamente fratelli per necessità di splendore, questo poeta continua ad essere compagno di strada su quella cattiva strada lungo la quale ho incontrato i più umani tra gli uomini.
Gian Maria Tosatti

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