31 ottobre 2015

L’intervista/Sergio Fermariello

 
LO SPAZIO LIBERO DELL’ARTE
Libero, e afunzionale. Antidoto verso una civiltà che corre troppo e che vede solo se stessa. Come un selfie collettivo

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La nuova stagione espositiva del Marte, Mediateca Arte Eventi di Cava de’ Tirreni, è ripartita sabato 10 ottobre, con l’inaugurazione della mostra personale (che gode del Matronato del Museo MADRE) di Sergio Fermariello. Sulla scena artistica da oltre trent’anni, l’artista è presente con i suoi lavori in numerose gallerie e musei internazionali. Dopo aver vinto nel 1989 il Premio Internazionale Saatchi & Saatchi per giovani artisti, all’età di trentadue anni fu invitato da Achille Bonito Oliva a partecipare alla 45° Biennale di Venezia (1993), con una sala personale nel Padiglione Italia. Negli anni Ottanta incominciò ad esporre presso lo spazio del noto gallerista Lucio Amelio. 
Marte propone dodici opere realizzate in acciaio e tela, una scultura in acciaio brunito dal titolo “Ananke”; una serie di lavori raffiguranti occhi ed una serie di fotografie del nuovo progetto ambientale, che ancora non è stato presentato al pubblico; oltre ad un’incisione del suo noto segno/guerriero, realizzata ad hoc per l’occasione presso il laboratorio di Nola di Vittorio Avella e Antonio Sgambati.
Lo abbiamo incontrato la sera del vernissage, per fargli qualche domanda:
Per la prima volta sono esposte nella Mediateca Arte Eventi di Cava de’ Tirreni, le nuove sculture a parete del 2015 che raffigurano occhi chiusi/aperti.  Se siamo in movimento ci guardano. Altrimenti?
«Io non voglio narrare storie, voglio andare al nucleo della lingua. Al centro dello sguardo. Non rappresento un oggetto da guardare, è lui che guarda te. Il troppo vuoto e troppo pieno è l’atteggiamento sociale bipolare imperante, tra depressione che non ti fa vedere niente e la paranoia che ti fa vedere in eccesso. Come dei selfie, vediamo solo noi stessi. Vogliamo lo specchio, abbiamo le telecamere nella testa. Tu cammini e la parete ti guarda».
Sergio Fermariello, vista della mostra
Nella stessa sala incontriamo il tuo noto segno/guerriero.
«Stiamo assistendo ad un mero appiattimento funzionale. Tutto deve essere asservito alla funzione. Non c’è più spazio all’inerzia e alla noia. Io ricordo i cortili polverosi dove c’era il vinaio seduto sulla sedia con le gambe accavallate che non faceva nulla, era la libertà  dell’uomo di non essere schiavo di un delirio da iperprestazione. Siamo tutti schiavi delle macchine. Si è asfaltato il viale senza pensare che gli alberi sarebbero morti dopo dieci anni, si è pensato alle macchine che s’infangavano. Come i missionari quando hanno cambiato l’ordine delle tende indio, loro non ti toglievano la fede, ti toglievano la strada per arrivare alla fede. Sono meccanismi inconsci».
Per proiettarsi nel futuro si deve fare un passo indietro?
«Non ci si deve appiattire sul presente. Non bisogna avere un orizzonte delimitato, devi avere tutti i tempi come orizzonte. L’arte contemporanea è un modo di scompaginare le tende degli Indio. Il mondo arcaico era lo specchio di un modello anticipatorio, archetipico e primigenio. Per cui ogni nostro gesto era sempre compreso in un alveo. Oggi siamo contemporanei, non abbiamo più questo binario archetipico, però poi vedi quanti sono i disturbi del comportamento individuali e collettivi. Nel momento in cui pensavamo di essere ciascuno libero di compiere il proprio gesto, ci ritroviamo ad essere tutti uguali, ad avere delle compulsioni individuali e sociali ripetitive».
La scultura “Ananke”, al centro della sala, sembra formata dalle sagome delle nostre paure, gli spettri delle nostre compulsioni 
«Siamo  come tante bocche aperte, siamo una merce tra le merci forse la più preziosa. Tu pensa alla Pop Art, ci ha fatto capire quanto anche l’oggetto d’arte possa essere ridotto esclusivamente al suo valore di mercato. In questo sistema ad esempio, di una maniglia ha importanza soltanto se funziona e quanto costa. A casa mia la maniglia non ha soltanto un valore d’uso e di mercato, così come a casa delle mia vicina dove la maniglia degli anni Trenta è stata aperta da nonna Anna, che ha visto partire il Titanic, l’ha aperta nonno Ugo, che mi ha fatto il ritratto negli anni ’70. Una maniglia sono tutti i soggetti che l’attraversano, quindi non è soltanto un oggetto, sono tutti i soggetti che fanno sedimento. La memoria restituisce all’oggetto gli strati accumulati nel tempo, la dignità di spettro di fantasma. Quando io accumulo guerrierini in realtà, sono gli atti mancati e le presenze che si sono incrostate sulla tela».
Sergio Fermariello, vista della mostra
Ricorre nell’icona del tuo guerriero la lancia I e lo scudo O. Ipertrofica reiterazione all’infinito dell’Io?
«La nostra vita è magma, è il nostro Io che mette ordine. Il surplus di significato che c’è nelle cose è tale che ci angoscia, non riusciamo a metabolizzare l’infinita energia dell’universo e allora tagliamo corto ed usiamo l’Io. Se fossimo sommersi da tutte le informazioni che provengono dall’inconscio, se fossimo privi della dimenticanza, impazziremmo. I pazzi, i geni, non hanno la modalità Reset. Ecco perché alcuni son capaci di fare delle integrazioni sinaptiche incredibili, dei calcoli impossibili ai più, ricordano l’infinito. I geni non hanno qualcosa in più, hanno qualcosa in meno. A loro manca la modalità Reset».
In questa mostra c’è un corpus di fotografie dell’Antenato. Parlami di questa nuova installazione ambientale alla quale stai lavorando
«Il mondo arcaico metteva in comunicazione forze che rimandavano al mondo dell’oltretomba. I morti mangiavano i vivi, pensa alla tragedia greca come tentativo di riparazione, di conseguenza era una separazione del mondo dei morti. Mediante la funzione religiosa o teatrale si ristabiliva un ordine con questo mondo. Ordine degli impulsi naturali che vanno placati. Noi reagiamo agli impulsi reprimendoli e separandocene. Noi siamo rimasti privi del rapporto con il nostro passato che significa il nostro futuro».
Vuoi dire che siamo sordi alle esigenze/emergenze ambientali?
«C’è una corsa alle supremazie economiche senza una reale politica mondiale. Io non posso rendere il Brasile equiparabile alla Germania. Non posso distruggere le sue foreste per costruire industrie, non può reggere questo modello. Ecco che le contraddizioni stanno venendo fuori. Se tu sei su un’autostrada e corri a trecento all’ora, come fai a sentire la richiesta di aiuto di chi sta fermo? L’aumento della velocità dei nostri sistemi di comunicazione e di spostamento nello spazio, la  velocità della nostra stessa mente, delle nostre connessioni sinaptiche e dei nostri ragionamenti ci ha fatto diventare semplicemente più sordi nei riguardi delle esigenze della Terra. Ciechi e sordi». 
Sergio Fermariello, vista della mostra
Cos’è che perdiamo andando in velocità
«In fondo cos’è l’anima? diceva James Hilmann: è la differenza tra un fatto e l’esperienza. Se io vado a Londra stamattina e torno oggi pomeriggio è un fatto, è un dato; mentre se io vado a piedi, è un’esperienza. Io “faccio anima”, cioè srotolo e sedimento tutte le esperienze che solo il tempo ti può restituire. Metabolizzare il viaggio, questo è anima. Essere veloci e funzionali serve in fondo ad anestetizzare le emozioni ed i sentimenti, che ci creano imbarazzo, angoscia. Quindi anestetizziamo l’anima muovendoci in velocità. È un’illusione di benessere la velocità. Ti costruiscono treni velocissimi, per spostare il tuo lavoro più lontano. Con l’illusione che ci arrivi prima, il tuo posto di lavoro si allontana sempre più dal luogo in cui vivi. Si sposta il luogo del desiderio ed il luogo in cui vivi diventa invisibile».
Cosa ci restituisce l’arte?
«Ci restituisce la noia, la gioia, tutte quelle emozioni perdute che non hanno funzione. Il vinaio seduto con le gambe accavallate. L’afunzionale. Deve restituirci quello spazio libero in cui sono possibili i pensieri liberi, le strade possibili».
Marina Guida

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