21 dicembre 2015

VISIONI E PROSPETTIVE

 
di Benedetta Carpi de Resmini
La critica letteraria, questa sconosciuta
Iniziamo con Andrea Cortellessa un nuovo spazio dedicato a chi guarda trasversalmente all’arte

di

Pubblichiamo la prima parte dell’intervista con il saggista e critico Andrea Cortellessa. Il primo interlocutore di una serie di intellettuali che si confrontano l’arte, pur non appartenendo a questo mondo.
La lettura sta scomparendo, in Italia si dice che esistano più scrittori che lettori. Come tieni conto nella tua professione di questi dati allarmanti?
«Il paradosso che hai appena enunciato che è verissimo per la poesia, e che si sta diffondendo per la narrativa, venne evidenziato 40 anni fa in un’antologia che si intitolava Il pubblico della poesia a cura di Alfonso Berardinelli e Franco Cordelli; in cui si affermava che il pubblico della poesia era composto dai poeti. Al momento sembrò una provocazione intellettuale, ma solo quattro anni dopo si verificò materialmente, nell’estate del 1979, durante il famoso Festival dei poeti di Castel Porziano. Il pubblico, nell’ultima sera, voleva salire sul palco e recitare quella che poteva essere la propria poesia; capovolgendo completamente l’ordine gerarchico che tradizionalmente rappresentava la lettura pubblica dei propri versi, già stigmatizzata da Leopardi quasi due secoli fa. Questo paradosso, in cui le esigenze espressive del singolo, fanno agio sulla sua esigenza di leggere e quindi di arricchire il proprio percorso con un’esperienza altrui, ha fatto sì che con il tempo l’accesso all’arte, nella fattispecie la scrittura, sia apparso come un diritto. Per cui il diritto all’espressione finisce oggi per diventare un diritto alla pubblicazione. Oggi a causa della rete i fenomeni di auto pubblicazione, che una volta erano confinati alle cosiddette vanitypress, ossia alle case editrici a pagamento, sono divenuti sempre più frequenti. Addirittura le grandi case editrici hanno promosso delle piattaforme di self-publishing, così abdicando a ogni forma di selezione, un ruolo che l’editoria ha svolto dal Cinquecento a oggi».
Un modello di macchina per stampa tipografica del 1765
In questo scenario che hai appena descritto, che ruolo viene riservato alla critica letteraria?
«In tutto questo il ruolo della critica è messo al margine. Mario Lavagetto già dieci anni fa denunciava, nel pamphlet L’eutanasia della critica, il decesso della stessa da un punto di vista sociale. La critica ha svolto, dalla seconda metà dell’Ottocento una funzione che oggi nessuno più le riconosce. Un mio collega intelligente, Daniele Giglioli, ha sostenuto che la critica deve dismettere la propria funzione di giudizio, mettendosi così in grado di reagire più liberamente all’opera d’arte e in questo senso e facendosi, definitivamente, una scrittura di secondo grado. Ora, sono il primo ad ammettere che la critica sia una forma di scrittura e in alcuni casi è una scrittura dal valore artistico; ma essa – rispetto alle altre forme di scrittura – deve mantenere, proprio deontologicamente, quella funzione pubblica, che le era stata demandata agli albori dell’età moderna. Oggi il critico deve tenere conto della proliferazione della produzione in rete, ma è proprio nel momento della confusione degli scrittori quello in cui c’è più necessità di una funzione critica. È dopo il crollo della torre di Babele che servono i traduttori, non prima. Certo sono cambiate le strutture, i linguaggi oltre che i parametri. Oggi la critica letteraria può convocare dei paralleli con altre forme d’espressione e con altri contesti, tramite una scrittura fondata sui collegamenti; only connect, predicava già E.M. Forster; oggi possiamo citare immagini fisse e in movimento, brani musicali, eccetera: senza più dover “tradurre” con più o meno virtuosistiche ekphrasis. Quello che manca oggi è un mandato sociale, che dobbiamo ricostruire attraverso un uso più corretto dei media. Penso che dovremmo lavorare al progetto di una critica “singolare plurale”, per parafrasare Jean-Luc Nancy, abdicando parzialmente al ruolo di Minosse, ossia del giudice, del Giove critico della tradizione novecentesca e cercare di costruire delle reti con altri critici e con altri operatori del settore,che in nome del bene comune della letteratura abdichino a parte della propria soggettività. Oggi viviamo una fase di transizione: Guido Mazzoni nel suo libro I destini generali cita Tomasi di Lampedusa parlando di una fase di modificazione: viviamo con testa rivolta al secolo passato ma sappiamo che il nostro corpo verrà trascinato in un secolo diverso, i cui connotati ancora non conosciamo».
Giuseppe Maria Crespi, Librerie di Palazzo Martini
La lettura rappresenta quella scintilla per aprire un rapporto sempre diverso con noi stessi e con il mondo esterno. Pensi che si possa ristabilire in un’era digitale un nuovo rapporto con il libro? Con i lettori?
«Si può stabilire un nuovo rapporto con la comunità di coloro che sono interessati alla letteratura. Si sta già creando una nuova forma di attenzione, questo è dovuto al fatto che con i nuovi media i testi “invecchiano” molto più velocemente che in passato. Per passare dal libro manoscritto al libro a stampa ci sono voluti tre secoli, per passare del libro a stampa a libro digitale o di ciò che prenderà il posto del libro, ci stiamo mettendo molto meno. Questa velocizzazione delle forme tecnologiche ci costringe ad una rincorsa come quella di Achille con la tartaruga. Il libro cartaceo scomparirà, diventerà un oggetto di gran lusso, come i codici manoscritti miniati. Cesserà non solo l’industria dei libri a stampa ma cesserà, temo, anche il concetto di libro, inteso come unità testuale, che ha dei confini rigidi e che si può interrogare a seconda della sua collocazione nello spazio. Il flusso dell’innovazione tecnologica cesserà di configurare i testi nella loro unità. Si arriverà ad una decostruzione totale, quindi il processo teorico della decostruzione, idealizzato negli Sessanta e Settanta, si sta realizzando ad una distanza di tempo piuttosto breve, consentito da un’innovazione tecnologica allora impensata (sebbene la Rete sia nata proprio allora)». 
La Feltrinelli
I premi letterari sono ritenuti ormai pilotati dalle stesse case editrici, continueranno ad avere senso in un Paese in cui circa il 50 per cento delle pubblicazioni in commercio sono appannaggio di un’unica casa editrice? 
«Il premio letterario è una forma di contrappeso alla forza del mercato, che la civiltà letteraria che ci precede aveva elaborato come selezione da parte di una élite e con una funzione di orientamento. Dopo gli anni Settanta il più importante dei premi letterari, il Premio Strega, subisce un forte cambiamento, interviene la grande industria editoriale, arrogandosi il diritto di scegliere le opere candidate. Precedentemente invece gli “Amici della domenica” potevano candidare loro delle opere, selezionando quello che ritenevano il  libro migliore. Oggi l’istituto dei premi è fortemente screditato dall’influsso che le concentrazioni editoriali hanno nei processi di formazione del consenso. Questo fenomeno che si è  palesato agli occhi di tutti col mostro “Mondazzoli”, che tanto ci fa inorridire, è in corso in realtà da vent’anni. André Schiffrin scrive Editoria senza editori negli anni Novanta e in Europa il fenomeno è stato denunciato negli anni subito successivi. Garzanti, marchio nobilissimo che ha fatto la storia della letteratura del secondo Novecento, improvvisamente diventa un contenitore anonimo, perché viene sussunto da un grande gruppo editoriale da GeMS. Si configura sempre di più una struttura letteraria a due velocità: da una parte i grandi gruppi, che possiedono i mezzi d’informazione, la grande distribuzione, le librerie e quindi hanno conflitti d’interesse verticali lungo l’intera filiera (conflitti d’interesse che in altri Paesi, dove esiste un vero antitrust, sono fuorilegge)- Dall’altra parte c’è la letteratura. Due mondi che non comunicano più».
Alberto Burri, foto di Aurelio Amendola
Quindi la “letteratura” come tu l’intendi non trova spazio nei grandi gruppi editoriali. Ritieni che questo influisca sull’offerta ai lettori?
«La letteratura che pubblicano le case editrici di ricerca non trova posto nelle librerie Feltrinelli e nelle altre catene, trovare posto in una di quelle vetrine ha un costo che l’editoria di ricerca non si può permettere. Quindi si stanno creando due pubblici e due sistemi d’informazione distinti, e completamente autonomi. Questo è fisiologico ma è anche una tragedia, perché accettiamo come dato di fatto la fine di un universalismo ideale della cultura, che è quello che nasce nell’Illuminismo e in nome del quale in teoria potevamo essere raggiunti dal bacio dell’inno alla gioia. Le parole di Schiller e Beethoven si rivolgevano idealmente ai “milioni”, non alle centinaia che potevano ascoltare dal vivo la Nona sinfonia nella sala da concerto. Questa riserva indiana che si sta formando, che noi collaboriamo a costruire e che io sono il primo a difendere, purtroppo rappresenta una resa: è la fine dell’universalismo della cultura. Tutti i fenomeni che si sono aggregati come espressione artistica nel periodo che va dalla fine della Seconda Guerra Mondiale alla fine degli anni Ottanta, e che hanno consentito a tutti di accedere all’arte, si sono da tempo deteriorati e sembrano non avere più diritto di cittadinanza. Ora la cultura si fa principalmente in rete ma alla rete non arrivano finanziamenti, quindi si potranno permettere di fare cultura solo coloro che lavorano all’Università, oppure sono ricchi di famiglia. Quindi la cultura sarà di nuovo appannaggio di una casta di possidenti. La libertà che è stata a lungo sognata, e che per qualche decennio abbiamo più che sfiorato – la libertà di poter tutti avere accesso all’arte – non ci sarà più concessa».
Benedetta Carpi De Resmini

In home page, Andrea Cortellessa, foto di Dino Ignani

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