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Ho avuto la fortuna di conoscere, non solo dai libri, ma personalmente Alain Jouffroy. Domenica scorsa ci ha lasciati e con lui se ne è andato uno degli sguardi dell’arte e una delle voci della poesia più radicali e intransigenti del XX secolo. Nato nel 1928, già a diciotto anni sperava in un “cambiamento totale del mondo”. Ha trascorso una intera vita in rivolta, non solo verso qualcuno o qualcosa, ma contro tutti quelli che non avevano il coraggio di “rivoltarsi”. Individualista rivoluzionario, poeta e saggista, critico d’arte, forse l’ultimo surrealista, amico di Aragon e di Duchamp, è stato anche amico di artisti, poeti, intellettuali che con lui hanno condiviso il desiderio, oltreché la necessità, di fare dell’arte uno strumento di non sottomissione e di libertà, quando per libertà si intende prima di tutto la sua conquista, giorno per giorno.
Nel 1968 si dichiarava un attivo sostenitore per un movimento, in realtà un anti-movimento artistico, per la stessa “abolizione dell’arte”. Quel giorno, nel 1997, quando Baruchello mi presentò Alain (si erano conosciuti nel 1962), eravamo in procinto di una mostra. L’anno dopo, nel 1998 Alain avrebbe sostenuto con la sua presenza, la nascita della Fondazione Baruchello e nel 2000 introduceva un mio libro di allora, un libro che gli era piaciuto perché, come lui stesso scriveva, rendendomi non poco felice, avevo provato, come donna a “erotizzare la storia del pensiero e della creazione moderna” ovvero a insinuare in questa storia gli affetti e il desiderio, azione di cui lui stesso era stato un punto di riferimento.
Da allora le visite e gli incontri con lui e la moglie Fusako, le lettere o anche le telefonate sono stati frequenti. Alain mi ha parlato di Duchamp soffermandosi sui suoi legami e trasgressioni con il Surrealismo, sul ready-made e sull’importanza di riscrivere sempre altre storie, anche di un artista come Duchamp, che per lui non era solo il “padre” ma il segnale forte, sempre lontano dai compromessi, dello spirito nietzschiano e indipendente dell’arte del XX secolo. Conservo ancora molte registrazioni. Era stato Alain a insistere perché in Francia fosse pubblicato qualcosa su Duchamp che ancora a metà degli anni Cinquanta era abbastanza al di là dall’essere conosciuto come sarebbe stato importante che fosse. La prima intervista di Alain a Marcel Duchamp fu pubblicata sul n. 491 di “Arts et Spectacles”, nel 1954. Altre due interviste, intelligenti e lucide, datano invece 1958 e poi 1961. Nel 1964 aveva pubblicato un libro dal titolo manifesto Une révolution du regard e nel 1974 aveva riunito in un altro testo dal titolo lungimirante di Les Pré-Voyants, quegli artisti che a suo avviso, aprendo un solco nella modernità, gli avevano permesso di scrivere per esplorare non assoluti paradigmi o astratte definizioni dell’arte, ma nient’altro che l’incertezza e il dubbio da cui proprio l’arte prende avvio.
Nel 1960 fu con Jean-Jacques Lebel l’ideatore di uno dei primi happening della storia dell’arte in Europa dal titolo di Anti-processo: una manifestazione di critica istituzionale dell’arte, contro le definizioni dell’arte, il giudizio e i meccanismi di esclusione e inclusione delle opere d’arte e degli artisti nei sistemi stessi dell’arte e dell’esposizione. Nel 2007 aveva ottenuto il Premio Goncourt per la poesia (i suoi libri sono stati pubblicati da Gallimard, da La Différence, tra molti altri editori) e nel 2012 un grande evento lo aveva ricordato al Centre Pompidou, nella sua città, a Parigi. Ha co-fondato “Opus International”, poi “XXe siècle”, con articoli che hanno spesso costruito posizioni indipendenti dalla critica o dalle tendenze più di successo.
Alain ha vissuto con l’arte e con la poesia, ha vissuto con esse e per esse anche nei momenti più difficili di contraddizione o conflitto (che per lui erano aperti e dichiarati e mai nascosti) con un ambiente intellettuale talvolta ostile alla sua forza intellettuale sempre contro i dogmi. Egli stesso ha realizzato oggetti di confine, tra il collage e l’assemblaggio, da lui chiamati Posages e dei quali le sue case, in Avenue Gambetta a Parigi o in Normandia, a Sainte Suzanne, erano piene. L’arte, come diceva già nel 1964, non poteva in nessun caso ridursi a “una collezione di oggetti destinati ai musei”, ma doveva prima di tutto riflettere una certa esperienza, quella che egli stesso identificava con la difficile ma seducente “esperienza interiore” che Georges Bataille aveva provato a indagare.
La scomparsa di Alain lascia dunque un vuoto, ma anche una traccia da seguire: la traccia viva e profonda di un intellettuale appassionato, tenace e curioso, a volte scontroso per difendere le sue idee più radicali, lontano dalle strategie del potere e partecipe di quella scia di spiriti liberi che si inseriscono come acuminati segnali di disturbo negli archivi ben confezionati della storia.
Carla Subrizi