23 gennaio 2016

Napoli molto progressista

 
Quando? Nel Settecento. Ma si festeggia ora. In questo week end il Palazzo Reale ricorda le passioni di Carlo III, l’audacia di Murat e la nascita della città contemporanea

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L’imponente facciata del Palazzo Reale di Napoli, costruito nel Seicento da Domenico Fontana su commissione dell’allora viceré Fernando Ruiz de Castro, si affaccia su Piazza Plebiscito, impostando una scansione percettiva che insiste sull’intersecazione monumentale dei piani verticali e orizzontali. Testimonianza quotidiana del passaggio della storia, il Palazzo è stato residenza dei viceré spagnoli e austriaci e, dopo l’Unità, diventò residenza napoletana dei Savoia. Attraversarne le sale vuol dire entrare nel palazzo mentale dei sovrani e dei secoli. Questo fine settimana, Palazzo Reale celebra i primi trecento anni dalla nascita di Carlo III di Borbone, proponendo, per il 23 gennaio, una giornata di percorsi tematici, a cura del Servizio Educativo. 
Il sovrano concentrò i suoi sforzi per adeguarne l’aspetto secondo le esigenze personali e seguendo i dettami delle più aggiornate corti europee. Nel 1738, in occasione del suo matrimonio con Maria Amalia di Sassonia – celebrato per procura a Dresda, in una cerimonia in cui il fratello della futura regina impersonava lo sposo – fece rinnovare gli ambienti interni, affidandosi a Francesco De Mura e Domenico Antonio Vaccaro, tra gli artisti più in voga del periodo. Qui vi allestì anche i preziosissimi pezzi della collezione Farnese, ereditata nel 1731, trasferita da Parma e, attualmente, condivisa con il Museo di Capodimonte. Sempre a Palazzo Reale, proseguendo in questa lettura della dimensione quotidiana dei grandi personaggi storici, si terrà “A passo di carica”, ciclo di appuntamenti organizzati dal Polo Museale della Campania, dalla Soprintendenza Belle Arti e dall’Ambasciata di Francia, dedicati a Gioacchino Murat, il giovane e dinamico sovrano francese, considerato tra gli artefici della nascita della Napoli moderna.
Francesco Solimena, Trionfo di Carlo di Borbone alla battaglia di Velletri, 1744, Reggia di Caserta
Carlo Sebastiano, nato il 20 gennaio 1716 da Filippo V di Spagna ed Elisabetta Farnese, era abilissimo nella caccia, si diceva fosse in grado di colpire con una freccia i personaggi ritratti sugli arazzi che pendevano dalle pareti delle sue stanze. Amante delle attività fisiche, studiava anche pittura e incisione ed era un affabile conversatore, prevalentemente in ambito culinario e meteorologico. Riuscì a conquistare, senza eccessive difficoltà, il Regno di Napoli e quello di Sicilia nel giro di due anni, facendosi incoronare Rex Utriusque Siciliae il 3 luglio del 1735 e riportando i Borbone sul trono, dopo aver scalzato gli Asburgo d’Austria. Oggi la geopolitica è una materia complessa ma anche in quel secolo non si scherzava e, tra giravolte dinastiche e circonvoluzioni nominali, i napoletani erano fortemente indecisi su come chiamare il proprio re. La scelta sembrava cadere tra Carlo VI, VII o VIII. Alla fine, si optò per Carlo III, ma il sovrano preferiva non usare numerazioni per firmare i suoi decreti. I primi anni furono dedicati a sistemare il caos, in particolare quello legislativo, contando che erano arrivati a coesistere undici codici, tra i quali quello romano, normanno, svevo, angioino, aragonese, austriaco ed ecclesiastico. Poi si occupò di materie fiscali e delle tasse e, tentando di distribuirne più equamente il carico, sottopose i beni della chiesa a imposte. Nonostante fosse molto religioso, contrastò il prepotere clericale, espulse i gesuiti e, appoggiato dai suoi illustri giuristi, sostenne l’indipendenza della regione dalla Santa Sede. Bloccò sul nascere il Tribunale dell’Inquisizione e lo fece in maniera molto teatrale, irrompendo nella Basilica del Carmine e toccando l’altare con la punta della spada. Il re era interessato anche alle attività artistiche e fondò scuole per la produzione d’importanti manifatture, come la Real Fabbrica degli Arazzi, il Real Laboratorio delle Pietre dure e la Real Fabbrica della Porcellana di Capodimonte. Istituì l’Accademia Ercolanese per gestire l’immenso patrimonio che, in quegli anni e sotto suo impulso, stava venendo alla luce tra Pompei, Ercolano e Stabia. Scelse di edificare a Caserta, dove spesso andava a caccia, un palazzo in grado di rivaleggiare con quello di Versailles. Nonostante la sua figura sia al centro di un dibattito storiografico, si può dire che condusse il proprio regno in linea con i suoi anni e, seguendo quei principi del dispotismo illuminato, riuscì a sopire l’uomo antico che, quantomeno per lignaggio, pure poteva dimorare nel suo carattere. 
François Gérard, Ritratto di Gioacchino Murat, 1808
Così, in questo percorso alla scoperta dell’uomo e del tempo, si partirà dal Teatro di Corte, per proseguire attraverso la sala del Corpo Diplomatico, dove si ammirerà l’Allegoria delle Virtù, il ciclo di affreschi di De Mura. Quindi, in un tripudio di stucchi rocaille, si raggiungeranno le stanze private dei sovrani. L’itinerario continuerà con l’illustrazione delle opere della collezione Farnese – come la tavola degli Esattori delle imposte, del fiammingo Marins van Roymerswaele, e l’Elemosina di Santa Elisabetta di Bartolomeo Schedoni – fino alla Retrostanza Rossa, alle cui pareti sono esposte le tele preparatorie per gli arazzi delle Storie di don Chisciotte, realizzati dalla Real Fabbrica fondata da Carlo. Ultima tappa sarà la Cappella Palatina, con le 210 figure e i 144 accessori del presepe settecentesco del Banco di Napoli, e i due ritratti degli ambasciatori turco e tripolino, realizzati da Giuseppe Bonito, in occasione di importanti accordi diplomatici stipulati tra il Regno di Napoli e l’Impero Ottomano. Trattati che aprirono alla flotta napoletana le vie del commercio nel Mediterraneo e contribuirono alla diffusione del gusto per l’esotico nella moda e nelle decorazioni.
Molto più breve rispetto a quello dei Borbone, durato, tra varie fasi 117 anni, il regno murattiano pure era destinato a segnare un decisivo passaggio tra le epoche. Vicino al tipo dell’eroe romantico, Gioacchino Murat era un audace soldato, abile comandante di cavalleria, si distinse nelle battaglie della giovane Repubblica francese. Sulla lama della sua sciabola, era incisa questa frase: «l’onore e le donne». Fu stretto compagno di Napoleone, in Egitto, a Marengo e Austerlitz, e ne sposò la sorella, Carolina Bonaparte. Nel 1808, venne nominato re di Napoli, dopo la caduta dei Borbone. Joseph Fouché, nominato da Napoleone Commissario generale d’Italia, lo descriveva così: «Nessun grande personaggio del momento lo supera nel ridicolo della parure e nell’affettazione della pompa». Fu acclamato dalla popolazione, che ne apprezzava l’avvenenza fisica, il forte carattere, i gusti teatrali, e fu odiato dal clero, contro cui scatenò il Codice napoleonico. Murat era un uomo d’azione ma non tralasciò l’attività politica. Avviò un’approfondita indagine sull’economia, la società e la cultura del meridione, portata avanti dalla Officina di Statistica, istituita nel 1809 e sulla scorta del Bureau de Statistique. Legalizzò il divorzio, il matrimonio civile e l’adozione, abolì definitivamente i diritti feudali, curò l’istruzione pubblica e avviò cantieri e industrie moderne. 
Giuseppe Cammarano, Ritratto di Carolina Bonaparte in abiti napoletani, 1813
All’apice dell’entusiasmo, desideroso di audaci sfide sul campo, pensò di riunire l’Italia sotto il suo comando, un’idea che, già sul finire del ‘700, circolava prepotentemente tra gli intellettuali. Il proclama del 1815, in cui invoca l’Unita d’Italia, segna l’inizio del Risorgimento. Nonostante l’ardore, alcuni successi iniziali e l’appoggio di personalità come Ugo Foscolo e Alessandro Manzoni, il tentativo si infranse sotto la resistenza dell’esercito austriaco. 
La parabola discendente era iniziata. Napoleone affrontava la sua Waterloo, i Borbone ritornavano sul trono e Murat fu arrestato dagli uomini di Ferdinando IV, il futuro Re Nasone. Processato da un tribunale militare, venne condannato alla fucilazione, il 13 ottobre 1815.
“A passo di carica” affronta l’argomento murattiano da un punto di vista eccentrico, prendendo in esame tutto ciò che gravitava intorno al francese. Ospite del primo incontro è Philippe Daverio, con una conferenza sulle diverse modalità della Rivoluzione, quella armata di Gioacchino e quella silenziosa ma, forse, più efficace, di Carolina. La donna, ben più razionale e calcolatrice del marito, non solo rappresentò l’estensione del potere, ma influenzò usi e costumi della popolazione napoletana, con i bagni a mare, gli spregiudicati atteggiamenti intellettuali, i vestiti alla moda, le pose mondane, le feste sfarzose. Perché, come scrive il critico: «Le rivoluzioni più amate, e forse anche quelle destinate a durare più a lungo, sono quelle che sconvolgono le forme del quotidiano, che scompaginano modi del pensiero, mentalità». 
A seguire, l’intervento di Fabrizio Mangoni, per illustrare la storia dei sapori di sartù, gattò (al secolo gateaux) e babà, portati a Napoli dai cuisiniers. Sperimentatori del gusto, uomini dalla divisa bianca al servizio delle famiglie più ricche, curiose e desiderose di adattarsi ai nuovi sovrani, tanto conosciuti per le ricette quanto anonimi nell’appellativo, i “monsieur”, questi cuochi d’oltralpe, vennero subito chiamati genericamente monsù. Alla Rivoluzione, venite a stomaco vuoto. 
Mario Francesco Simeone 

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