01 febbraio 2016

Salvate Arte Fiera! Ora o mai più

 
Bene le vendite, ma i problemi di Arte Fiera 2016 sono stati tanti. Li percorriamo con alcune voci che bisognerebbe ascoltare per risanare la kermesse: quelle dei galleristi

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Questa edizione di Arte Fiera, è inutile negarlo, non è stata una passeggiata di salute. Non è bastato un trionfalismo da strapaese, né le due “pallide” mostre celebrative al MAMbo e alla Pinacoteca, nonostante nel programma di Art City vi fossero eventi decisamente importanti, come la maratona dedicata all’ultima fatica di Matthew Barney, River of Foundament.
“Ma dov’è il mio corniciaio? Manca solo lui”. La battuta di un gallerista che preferisce rimanere anonimo, circolava tra i padiglioni della fiera già da venerdì mattina. Qualità bassa, un tutti dentro che ha scontentato molti, troppe gallerie (217) anche se fossero state per lo più buone. Disorganizzazione, assetto sballato della fiera con il padiglione 32 rimasto in un limbo. 
Insomma, i malumori raccolti, anzi spontaneamente arrivati durante questa Arte Fiera, che doveva celebrare i suoi primi 40 anni, sono tanti. Ci abbiamo anche pensato un po’ prima di raccontarveli, decidendo però che un’informazione corretta deve dare conto di tutto, al di là dei legami, personali e professionali, degli accordi lavorativi. E al di là del fatto che per fortuna, come abbiamo più volte sottolineato, a Bologna si vende (fatto che rimane il motivo principale perché un gallerista fa una fiera) e che il pubblico c’è. Non fosse altro che per queste due ragioni, vale la pena riflettere sul format Arte Fiera. E magari cambiare qualcosa.
Artefiera 2016, Padiglione 32

Il primo a lamentarsi (eufemismo) è un bolognese doc, «Fedele alla fiera da sempre, pronto a difenderla sempre»: Enrico Astuni. «Se non cambia, il prossimo anno io non ci torno. La qualità è inaccettabile, Il 75 per cento delle gallerie presenti non passerebbe il vaglio di una qualunque altra fiera che aspiri minimamente ad essere autorevole e internazionale. Perché invece devono arrivare proprio a Bologna, che era una delle fiere più prestigiose d’Europa? La selezione è fondamentale, ma va fatta sul campo con gente che si muove, che conosce, capace di trattare con gallerie italiane e straniere. E non parliamo della disorganizzazione, gli inviti sono arrivati cinque giorni prima l’opening. Come li avverto io i miei collezionisti?», tuona Astuni, che promette battaglia perché le cose cambino sul serio.
Il Padiglione 32, al centro delle critiche, ha visto mischiate le gallerie della proposta MIA, la fiera milanese di fotografia, gli stand che proponevano solo show (senza neanche il nome dell’artista), e anche le Nuove proposte. Il tutto in uno spazio non adeguato, piccolo e, nel week end, sovraffollato, nonostante non fosse di passaggio, con un pesante effetto “imbuto”. 
Un'opera di Gioberto Noro, da Albero Peola

Peccato, però, che le promesse fossero state altre. Ce lo ricorda Alberto Peola di Torino, che la settimana scorsa ci aveva raccontato con entusiasmo della sua nuova partecipazione bolognese: «Ho parlato troppo presto. Mi avevano promesso che sarebbe stato un luogo di passaggio obbligato e invece non è stato così; hanno mischiato giovani che, per forza di cose, hanno prezzi bassi e i collezionisti si trovano spiazzati quando arrivano da me [in scena il solo show di Gioberto Noro, 6-7mila euro a pezzo n.d.r]. Perfino Patrizia Sandretto Re Rebaudengo, che presumibilmente nelle fiere sa orientarsi ha avuto difficoltà nel trovare questo luogo. E lei ancora ci viene a Bologna, ma i collezionisti del contemporaneo non ci vengono più e quindi, per me, si vende meno di prima». Il primo giorno Peola, con un altro gruppo di otto galleristi tra cui la romana Ex Elettrofonica, Scaramouche di New York, Riccardo Costantini e Boccanera sono saliti all’ufficio tecnico per chiedere spiegazioni, ma poco si è risolto: «Nessuno ha colpa, come per le statue coperte ai Capitolini», continua Peola, «Se i direttori artistici non si assumono le proprie responsabilità, non ci torno a Bologna».
«Hanno messo i biscotti nella corsia dei detersivi», scherzano Beatrice Bertini e Benedetta Acciari di Ex Elettrofonica. Che però poi ci vanno giù tostissime: «Dopo un padiglione come il 32 senza neanche le toilette, basta, questa fiera non deve farla più nessuno». Anche se le vendite, lo ribadiamo, non mancano. Lo dice bene la dichiarazione che riportiamo da Gianfranco Composti, della milanese Cà di Fra: «La fiera è un delirio: 217 gallerie fanno 1000 artisti che in genere significa 5mila opere. Che cosa vede il pubblico, come fa a scegliere? Ma se non vendi lunedì mattina gli devi comunque lasciare 25mila euro. Detto questo il prossimo anno saremo qui».
Da Boxart di Verona invece si parla di nuovo di qualità: «Ci sentiamo sotto osservazione e la cosa è un po’ disturbante. Ci fanno le pulci, ci controllano con una certa supponenza sul progetto che portiamo e poi ci ritroviamo in mezzo a gallerie imbarazzanti. Va benissimo l’attenzione sul lavoro che si fa, ma che il criterio valga per tutti!», spiega Beatrice Benedetti.
Particolare dello stand di Mario Mazzoli, con l'installazione di Douglas Henderson

Al Padiglione 32 è riuscito invece a sfuggire il giovane Mario Mazzoli, che si è messo in extremis nell’area Moderna accanto al padre Emilio, storico gallerista di Modena. «Mi è andata bene, e anche se non sono tra i contemporanei il pubblico qui arriva lo stesso». Sara Zanin, della romana Z2O, non fa troppi complimenti: «Il livello è troppo basso, e alcune iniziative collaterali, come la mostra per i 40 anni della fiera che sarebbe dovuta essere l’omaggio, la memoria di questa istituzione, non sono all’altezza. Si vende bene? Non so, al momento il mio stand non è stato premiato neanche dal mercato. Non so se tornerò».
Umberto Di Marino, da Napoli, si toglie qualche sassolino dalla scarpa rispetto al pubblico di Bologna, dove anche i collezionisti sembrano un po’ decaduti rispetto alle edizioni degli scorsi anni, più preoccupati di prezzi e “voci di corridoio” sulle carriere degli artisti, e quasi impreparati sulle ricerche, poco aggiornati, capaci di saltare da Balla a Di Fabio come se nulla fosse. «Bisognerebbe ricominciare ad educare, anche dal principio: gli studenti di belle arti vengono in fiera e anziché guardare le opere nel loro messaggio cercano l’aspetto tecnico». Anche questo, in effetti, fa un po’ ridere d’amarezza, e affonda Bologna in una dimensione amatoriale, da uscita del week end, come ci racconta Hélène de Franchis della veronese Studio La Città.
Vedovamazzei, Milonga, 2006 da Umberto Di Marino

La gallerista, che aveva partecipato a Bologna per la prima volta nel 1975, anno di nascita di Arte Fiera, ha detto addio alle fiere proprio da qui, nel 2012, con la bellissima installazione di Jacob Hashimoto, ma quest’anno è tornata proprio per omaggiare la grande kermesse italiana, la più vecchia d’Europa, per l’ultima volta. Ma anche lei ci rivela un aspetto un po’ inquietante: «Quando resto seduta alla scrivania e l’unica domanda che mi viene rivolta è “Dove sono state scattate le fotografie [la serie delle Spiagge n.d.r.] di Massimo Vitali” capisci che c’è qualcosa che non funziona eppure – continua la gallerista – le vendite vanno bene, ma il Padiglione 32 non doveva esserci. Bisogna avere il coraggio di stringere la cinghia sulle partecipazioni, selezionare, e fare belle fiere nazionali perché tanto con l’estero non c’è competizione, specialmente perché le uniche tre che funzionano perfettamente – da sempre – sono quelle firmate Art Basel». 
Sull’internazionalità dice la sua anche Paola Verrengia di Salerno: «Non si è visto un collezionista straniero, non un direttore di museo. Ormai Arte Fiera è poco internazionale e questo dispiace perché è un patrimonio che si è perso negli anni».
Detto questo, che fare? Bisogna cercare di correre ai ripari, per evitare proprio di disperdere ulteriormente un vero patrimonio italiano che, anno dopo anno, sta buttando all’aria i suoi pezzi, la sua forza, la sua storia, la sua identità, in una missione suicida.
Jacob Hashimoto, Armada, 2011 - Artefiera 2012, Courtesy Studio La Città

Sì, perché in nome di quale economia si fanno investire decine di migliaia di euro ai galleristi per mandarli poi a casa insoddisfatti, se si escludono quelli che hanno stravenduto? Perché, come spesso abbiamo rimarcato, non tentare la carta per diventare la fiera d’eccellenza delle gallerie italiane cercando di riportare i grandi galleristi che da anni ormai danno forfait, associandoli a proposte giovani e di livello, anziché buttarla sul grande numero da calderone che farà tanto cassetta ma che nell’arco di poche stagioni affonda tutta la barca? Come può venire in mente a chi di dovere di piantare dozzine di gallerie in una hall senza nemmeno i bagni? Sviste, chiamiamole così, che in un quarantennale che si rispetti – visto che il cerimoniale è stato ampio – non dovevano vedersi. E sul futuro la nebbia è fitta, mentre qualcuno assicura che di questo passo Bologna potrà essere presto sostituita da altre manifestazioni più giovani, che hanno dimostrato grande vitalità negli ultimi anni. Una riflessione critica, stavolta, è proprio d’obbligo.

4 Commenti

  1. sono assolutamente d’accordo con la tesi di exibart.
    non basta moltiplicare gli eventi ma guardare alla qualità delle proposte e alle logiche di selezione. bologna va salvata

  2. Purtroppo l’impressione non è stata delle più positive, le osservazioni confermano un bisogno di qualità che proprio questi 40 anni doveva riqualificare questo evento, purtroppo non è successo ed è un peccato…

  3. Concordo perfettamente con l’articolo, una mostra fatta più’ di numeri che di sostanza che male si sposa con i nostri tempi…molti trionfalismi e pochi veri risultati, scarsa qualità’ e quasi nessun legame internazionale..una fiera da paesello insomma, frutto probabilmente di una visione ristretta degli organizzatori

  4. Bel commento di Alessia Locatelli su un’arte fiera deludente nonostante Bologna abbia un’antica ed ottima tradizione di organizzazione fieristica.
    Scadente qualità generale ma vendite che vanno bene, chi compera allora? C’è un gran mercato della bassa qualità? Peggio che mai!
    Alberto

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