13 febbraio 2016

Né qui né altrove/2

 
Mostre a go-go, fiere e biennali che costellano il pianeta. E l’opera, l’artista che fine hanno fatto? Domande rimbalzate a Bologna per tre giorni. Con molta ironia e un po’ di amarezza

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Né qui, né altrove. Dunque… dove? Musei, gallerie, fiere, garage, box, magazzini, ex capannoni industriali, palazzi privati, pubblici e/o abbandonati. Ogni location val bene una messa per allestire una mostra. La regola del buon giornalismo dice che tutto e niente si equiparano, o selezioni l’informazione e la comunichi nella giusta maniera, o il pezzo è carta straccia. Dagli anni Sessanta, l’arte è un gioco di tautologie, da quando poi – rispolverando vecchi cavalli di battaglia della museologia contemporanea – il museo dell’iperconsumo è entrato nell’arena, gli spazi dell’arte e gli spazi dello svago e tempo libero si sono ingarbugliati sempre più, creando spesso solo un gran caos.  
Né qui né altrove, allestito a Palazzo Bevilacqua Ariosti a Bologna durante i giorni di Arte Fiera, è stato uno tra gli “spazi” più visitati del week end felsineo: era un cortile di un nobile palazzo privato. Qui Giuseppe Pietroniro e Marco Raparelli hanno realizzato una mise en scène ironica ed irriverente di quello che accadeva dall’altra parte della città, dove andavano in vetrina opere come prodotti. Qui gli unici multipli disponibili erano i quadrati del soffitto a cassettoni che facevano a pugni con il cielo, stendendolo al primo colpo. 
Nè qui né altrove, vista della mostra
L’operazione è stata corale. Co-protagonisti dell’iniziativa erano: Loredana Di Lillo, Lorenzo Scotto Di Luzio, Andrea Salvino, Luca Trevisani, Simone Berti, Alessandro Sarra, Marco Colazzo, Stefania Galegati Shines, Stanislao Di Giugno, Alessandro Cicoria, Giovanni Kronenberg, Daniele Puppi, Massimiliano Piluzzi (Masito), Luca Rossi, Cuoghi e Corsello. Utilizzando i dispositivi d’indagine tipici del concettuale, inoltre, sono stati coinvolti alcuni curatori in un paio di talk – immancabili (!) – e, per mano di Lorenzo Bruni, sono state esposte una serie di interviste ad alcuni personaggi del mondo dell’arte. Prima domanda: quale è stata la prima volta che hai avuto a che fare con la parola scritta e che la hai sentita come elemento autonomo…come un’immagine? 
Raparelli e Pietroniro, con ironia e non-sense, hanno praticato la vecchia arte della dissimulazione: mettendo in scena le dinamiche che sottendono la produzione, la circolazione e la ricezione dell’opera d’arte, tramite metonimie e allegorie, hanno mirato alla crepa, alla rottura, allo smascheramento, collocandosi sul bordo che non cerca l’altrove, ma il qui. E questo hic et nunc è stato trovato a Bologna a Palazzo Bevilacqua, ma poteva essere ovunque. È stato il Museo Andersen a Roma nel 2012, quando per la prima volta è stata presentata la mostra, e in futuro potrà essere …. chissà dove. I due artisti romani, del resto, sono impegnati anche nel progetto There Is No Place Like Home, insieme ai già citati Cicoria, Di Giugno, Puppi, Giuliana Benassi e Lopalco. 
Nè qui né altrove, vista della mostra
Né qui, né altrove. Dunque… dove? Dunque qui e ovunque si possano imbandire situazioni di dialogo e scambio. Qui perché – come lo ha dimostrato anche il Forum dell’Arte Contemporanea svolto a Prato lo scorso anno – c’è un’urgenza, con delle specificità tutte italiane, da essere affrontata e all’interno della quale, Pietroniro e Raparelli, cercano di dar fuoco alla miccia. 
Le assonanze con la prima tappa del Musée d’art Moderne – Département des Aigles di Marcel Broodthaers (1968), sono diverse soprattutto se si considera che, sabato sera, una stanza del nobile palazzo è stata allestita con il “vuoto” di casse, cartoni ed imballaggi. Oggi come allora, il  punto della questione sono le dinamiche dell’industria culturale. Quei meccanismi che Broodthaers, come Haacke o il primo Buren, avevano intuito sono diventati elementi trainanti del nostro modo di “fare cultura”, in seno al quale l’Institutional Critique cerca di fare da pungolo. Un tempo era la società dei consumi, oggi è il post post -strutturalismo, un’epoca liquida e rizomatica, capitalista sempre ma in più cognitiva, in cui ogni clic sulla tastiera corrisponde ad una forma di valore. Le gerarchie estetiche sono inevitabilmente e irreversibilmente mutate. 
Se negli anni ’60 un timido spiraglio di sopravvivenza c’era, oggi la facoltà fagocitante del sistema è indiscutibile. Ma la strada dell’arte è una strada tortuosa, una strada sulla quale il piede sente le pietre, una strada che non torna indietro (Sklovskij). Si conclude sempre con una citazione, del resto. Alla prossima puntata. 
Serena Carbone

1 commento

  1. Scusate tanto ma se c’è uno che ha dato il via o come dite voi sta cercando di dar fuoco alla miccia, quello sono io, e per una volta, almeno una volta abbiate il coraggio di dire le cose come stanno realmente. Ma come è questa storia? Io faccio il lavoro, ne pago amaramente le conseguenze e i meriti se li prendono gli altri? E poi si ha in coraggio di riempirsi la bocca di belle parole sul problema dei cervelli in fuga? E allora questo paese di Pulcinella (almeno Pulcinella era divertente mentre tutto questo non lo è) si merita molto di peggio.

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