25 febbraio 2016

L’INTERVISTA/MARIO RIZZI

 
IO E IL MEDIO ORIENTE
Ritratto dell’artista italiano che forse conosce meglio il mondo islamico. E che ha sempre lavorato sulla persona

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Sin dagli inizi Mario Rizzi ha focalizzato la sua ricerca sulle vicende di persone comuni, escluse dalla società per motivi economici, politici, religiosi. Nei suoi lavori affronta macro temi, trascurando dati puramente numerici e descrittivi, per mettere in luce l’aspetto umano. Rende unico, emblematico, centrale l’elemento ordinario, riesce a raccontare situazioni complesse privandole dei loro aspetti più spettacolari, dona equilibrio ad eventi e persone, creando una dimensione intima e poetica. Negli ultimi anni la sua ricerca si è incentrata sui territori medio orientali, dove ha realizzato tra gli altri i film The Outsider, che aprirà la 27esima edizione dell’Ankara International Film Festival il prossimo 28 aprile, Al Intithar (che è stato in mostra allo Studio Stefania Miscetti di Roma fino a sabato 20 febbraio, a cura di Cristiana Perrella) e Murat Ve Imail, oltre ad aver intessuto relazioni personali e professionali che hanno influenzato il suo lavoro ed il suo linguaggio artistico. Lo abbiamo incontrato per farci raccontare il suo percorso.

Mario Rizzi, Al Intithar, Film Still Courtesy Mario Rizzi & Sharjah Art Foundation

Quali sono stati gli incontri più significativi e che ritieni abbiamo maggiormente influito sulla tua ricerca artistica?
«Il primo è stato sicuramente ad Amsterdam con Suzanne Oxenaar, curatrice olandese che ho avuto modo di conoscere in occasione di una mia mostra al Museumvoor Fotografie. Grazie a lei ho avuto l’opportunità di svolgere cinque mesi di residenza in un ospedale psichiatrico criminale non lontano da Utrecht. Il progetto, They tell me I am sick, è diventato anche un libro e per scegliere le cinquantacinque foto da inserire nella pubblicazione – tra le cinquemila che erano state scattate dai pazienti coinvolti nel progetto – ho chiesto aiuto a Suzanne. Terminata la selezione ho scartato gli scatti scelti, perché mi era divenuto molto chiaro che entrando in un contesto a cui si è estranei si tende a fare delle scelte che sembrano logiche, proponendo la propria visione di una determinata situazione. In quel caso era come se stessimo ricercando il paziente psichiatrico, la malattia o la patologia mentale in quelle foto, mentre io volevo trovare la normalità dei pazienti nel vivere in quel contesto. Altri due incontri improntanti sono stati con Jack Persekian e Yona Fischer. Nel 2001 mi trovavo in Israele perché ero stato invitato da alcuni curatori di lì per realizzare un progetto nel quale volevo coinvolgere anche i palestinesi. Ne nacque una discussione molto forte con i curatoti che erano totalmente contrari. In quello stesso periodo ebbi modo di conoscere Yona, che non solo mi invitò a fare una residenza presso il Jerusalem Center of the Visual Arts, da lui diretto, lasciandomi carta bianca nel realizzare il mio progetto, ma mi suggerì anche di contattare Jack Persekian per capire meglio chi fossero i palestinesi e come potermi preparare a lavorare con loro. Un terzo momento è stato essere invitato alla Biennale di Istanbul nel 2005, che ha condizionato il mio modo di lavorare ancora oggi. Dopo tanta fotografia, ho iniziato a fare video in multi schermi. Quando sono stato invitato alla Biennale l’Istituto Italiano mi comunicò che non vi erano soldi per la realizzazione del mio progetto. A stanziare i fondi per fu quindi la Biennale stessa, offrendomi però un budget ristretto, e lavorare ad un multischermo era alquanto problematico. Per questo decisi di scegliere uno solo dei temi che sarebbero andati a comporre il progetto e di realizzare il mio primo film. Il quarto incontro è stato quello con Eduardo Cutinho, uno dei più grandi documentaristi brasiliani. Con lui ho parlato intensamente di cosa vuol dire fare un documentario, il suo lavoro è unico, alcuni suoi film sono capolavori. Cutinho mi ha aiutato a superare le mie paure, a mettermi in gioco e rischiare di più». 
La prima parte della tua ricerca artistica si è concentrata sui territori del nord Europa per poi focalizzarsi successivamente sulla zona del Medio Orientale, cosa hanno in comune luoghi tanto differenti? Hai più volte espresso il tuo interesse, specialmente negli ultimi anni, per la cultura islamica. Cosa rappresenta per te? 
«Sin dai miei primi lavori in Olanda e nei Paesi Bassi il mio interesse è sempre stato focalizzato sui rifugiati, gli esclusi, l’Altro. L’Altro oggi è rappresentato dal mondo islamico, di cui si parla spesso solo in termini di spettacolarità pompata dai media. È dunque un ‘altro’ di cui non si conosce veramente né la cultura né il background. Si cerca di superare questo gap culturale semplicemente dicendo che loro sono trenta o quarant’anni indietro rispetto a noi o paragonando ad esempio la Primavera Araba al nostro illuminismo, il che significa compiere un errore storico, culturale e razzista, perché non tiene conto del percorso e delle esigenze che hanno portato alle rivoluzioni arabe. Ci si aspetta che nei Paesi dove vi è stato un tentativo di cambiamento verso la democrazia questo debba essere immediato e quasi miracoloso, quando ciò non è accaduto neanche nelle nostre culture. Il mondo islamico è un ‘altro’ molto fragile, che subisce tante pressioni e questo mi interessa». 

Mario Rizzi, Al Intithar, Film Still_Courtesy Mario Rizzi & Sharjah Art Foundation

Qual è stato il lavoro emotivamente più faticoso da affrontare?
«Anche se può sembrare strano è stato The Outsider. Quello che trovo facile e che mi aiuta nel mio lavoro d’artista è lavorare con una persona, creare una relazione personale, è nel rapporto di uno a uno che riesco a trovare sempre il modo di rispettare il mio spazio vitale senza invadere lo spazio altrui. Nei miei film la storia ruota sempre intorno ad un protagonista con il quale lo spettatore può identificarsi. Una delle difficoltà di lavorare su quest’ultimo film è stata lavorare con dei gruppi, che per definizione non hanno un leader. Quindi, anche da un punto di vista cinematografico è difficile fare emergere un protagonista se non c’è. Inoltre ogni volta dovevo essere capito in quello che stavo facendo, e rassicurare ognuno sul fatto che non avevo intenzione di strumentalizzare la loro storia. Ma più di tutto sentivo il problema che vi erano persone che rischiavano la vita, il posto di lavoro. Avvertivo il rischio di poter danneggiare qualcuno. È stato molto importante rispettare, e non censurare, senza mettere a rischio la loro vita». 
Il tuo lavoro Al Intithar (2012), ambientato nel campo profughi di Zaatari in Giordania, è stato presentato in diversi Paesi: Italia, Giordania, Turchia, Francia, Stati Uniti, e questo ti è capitato anche con altri lavori. Come cambia la percezione del tuo lavoro da parte del pubblico da un luogo all’altro? 
«Più che i contesti geografici, quello che cambia è il contesto culturale delle persone che fanno parte dell’audience. Ad esempio, a New York sono state molto diverse le reazioni e gli approfondimenti tra la presentazione alla Columbia e al PS1 MoMA. Più che il luogo è il perché ed il come una persona si interessa a questo tipo di tema: se lo guardi da un punto di vista artistico guarderai i paesaggi e le inquadrature, se lo guardi da un punto di vista sociologico penserai all’integrazione delle culture, se lo guardi da un punto di vista umano penserai alla condizione dei vita delle persone. Ma al di là di questo non penso ci sia una differenza tanto netta tra i luoghi in cui l’ho presentato. Quello che invece è molto diverso nella percezione di un film del genere è la differenza tra chi è estraneo a questi luoghi e chi invece ha avuto esperienze personali che hanno analogie con quello che avviene nel film. Non ne farei una differenza etnica o geografica, ma più legata all’esperienza personale».
Mario Rizzi, Murat ve Ismail, 2005, Film Poster, Courtesy the Artist & Istanbul Biennial 2005
Qual è il ruolo dell’arte nei Paesi medio-orientali?
«È molto cambiato dopo essere entrato in contatto con la cultura occidentale, per cui da essere qualcosa di fortemente legato alle culture tradizionali e ad un aspetto più intimo, che non doveva essere mostrare all’altro, è diventato un modo di concepire se stessi. E questo è molto importante perché accanto alla figura dell’occidentale o dell’outsider si ha anche la visione dell’insider, che mostra cose differenti. Il linguaggio dell’arte occidentale è stato dato, quasi obbligatoriamente, come linguaggio comune, provocando una colonizzazione culturale. Una volta acquisiti tali codici però il mondo medio-orientale ha iniziato a modificare il sistema preesistente, proponendo i propri codici, provocando una sorta di colonizzazione del colonizzante. Sono nate così istituzioni culturali, che hanno ben presto capito l’importanza ed il prestigio di essere promotori di cultura, così come si sono creati degli aggregatori umani che sono riusciti a concentrare intorno a se le energie necessarie per inventare un proprio codice espressivo, penso all’esperienze in Turchia di Vasif Kortun, in Palestina Jack Persekian».
Mario Rizzi, They tell me I am sick but i function good, 1999, Courtesy the Artist
Qual è la scena artistica in questi Paesi? E cosa è cambiato dopo le primavere arabe, sia nell’ambito della produzione sia del mercato?
«Prima di tutto bisogno fare una distinzione tra il mondo arabo e il quello turco. In Turchia c’è sempre stata una volontà di entrare in contatto con il mondo occidentale e ci sono stati degli artisti che sono stati importanti per la creazione di questo ponte, come Gűlsűn Karamustafa e Hűseyin Alptekin, che sono diventati i padri della generazione successiva di artisti. Questi artisti non hanno fatto ricerca per se stessi, ma hanno sempre voluto i giovani accanto a sé, c’è sempre stata una volontà di voler comunicare agli altri quello che stavano facendo, di condividere la loro ricerca. Il fatto che lo stato turco non si sia mai molto interessato delle arti è stato a mio avviso un fattore positivo che ha portato alcuni mecenati a finanziare gli artisti. L’essere supportati da capitali privati ha permesso alla generazione di artisti più giovane di esprimersi liberamente senza subire le ristrettezze, né economiche né politiche, con le quali Gűlsűn e Hűseyin si sono dovuti confrontare. I giovani hanno avuto accesso a capitali e possibilità in modo da poter sviluppare la creatività che era nata grazie al loro lavoro. Questa seconda generazione non è stata a mio avviso altrettanto generosa con i più giovani, ma anzi la maggiore disponibilità economica e libertà politica hanno portato ad una certa competizione fra artisti, proiettando gli artisti turchi verso un ambito internazionale. Tutto ciò però a discapito della creatività e dell’originalità artistica. Nel mondo arabo (ad esclusione della Palestina) essere artisti era una cosa più intima, più personale, non c’era assolutamente un mercato.  Il fatto che siano sorte delle istituzioni, che siano arrivati esponenti del mondo dell’arte occidentale ha creato quel linguaggio di cui parlavamo prima che ha provocato un’esplosione artistica. Vi sono artisti che prima utilizzavano soltanto il linguaggio occidentale per essere accettati, ma che adesso iniziano a creare un linguaggio contaminato nel quale la loro cultura è ancor più importate. Volendo fare due esempi il mondo dell’arte nel mondo arabo è concepito in due modi: o si costruisce il nuovo Louvre e il nuovo Guggenheim, oppure si supportano i giovani artisti del posto. I palestinesi hanno sempre saputo che il modo più forte e significativo per comunicare quello che accadeva loro era esprimersi utilizzando un linguaggio metaforico, ma chiaro, e grazie anche al confronto con la cultura israeliana hanno compreso sin da subito come utilizzare il linguaggio occidentale per portare avanti la loro ricerca artistica e la loro lotta. Quindi, è un lavoro inimitabile nella sottile ironia e nell’intimismo che lo caratterizza, andando allo stesso tempo al punto. Essere artisti in Palestina è anche uno statement politico e ciò non sminuisce la loro arte, perché non è un lavoro unicamente politico, ma diventa universale. Il mercato è più occidentale. Nel mondo arabo ci sono grossi collezionisti che tendono ad acquistare i grandi nomi del mondo dell’arte occidentale, mentre è cresciuto l’interesse da parte dei collezionisti occidentali verso il mondo arabo. Da un punto di vista artistico non sono state le Primavere Arabe a portare una svolta, anzi non mi viene in mente un artista che sia nato o emerso come risposta alle primavere arabe. Paradossalmente delle Primavere Arabe hanno parlato di più gli artisti della diaspora, perché le Primavere Arabe sono un processo in corso, la vera esigenza di risposta in questo moneto sta nell’attivismo non nell’essere artista, mentre chi era già cosciente del suo essere artista ha gli strumenti per raccontare le Primavere Arabe».
Pia Lauro

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