30 marzo 2016

NON CHIAMATELA “COLLEZIONE ROSA”

 
Iniziare una collezione per fissare una teoria critica. E organizzarla secondo canoni definiti. Incontro con Donata Pizzi e un particolare capitolo della fotografia

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Donata Pizzi, milanese, tornata nella sua città dopo anni e anni passati prima a Londra e poi a Roma, nell’arco di un anno ha acquisito qualcosa come un’ottantina di  fotografie. Solo fotografie e solo di autrici donne, e italiane, che coprono esattamente cinquant’anni di produzione: 1965-2015. Anni in cui è cambiato il Paese, il modo di vedere e anche quello di raccontare la società. Partendo da Lisetta Carmi che negli anni ’60, ragazza genovese di buona famiglia, passò diverso tempo con un gruppo di travestiti. Li immortalò in un celebre libro, dando loro un’esistenza che all’epoca non avevano. E poi Mondo Cocktail di Carla Cerati, Marina Ballo Charmet, Lucia Marcucci, Libera Mazzoleni, Giulia Caira, Isabella Balena, Liliana Moro, Marialba Russo (con lo splendido progetto “in presa diretta” Al ristorante il 29 settembre 1974), e poi le giovani Elena Givone, Gea Casolaro, Silvia Camporesi. E ora, qual è la prossima tappa di questa raccolta ospitata per ora in un tipico appartamento meneghino a due passi da piazzale Loreto?? Si aspetta l’occasione per mostrare questo curioso tesoro. 
Alessandra Spranzi, Tornando a casa #20, 1997, stampa a colori su alluminio, cm.24,5x36,5, ed.5+2pda
Cominciamo dal perché hai deciso di mettere in piedi una collezione. 
«Volevo darmi un progetto che giustificasse il fatto di dover restare forzatamente in questa città. Sono fotografa da sempre; ho iniziato come archivista all’Espresso e a Roma ho aperto io il primo ufficio di Getty Images. Sono stata insomma anche dall’altra parte della barricata. E conosco bene il mercato, l’ho vissuto anche da fotografa». 
Qual è la tua formazione?
«Ho studiato fotografia al Farnham College di Londra, nella seconda metà degli anni ’70: era una città povera, pre-tatcheriana, ma con formidabili istituzioni pubbliche». 
Stai raccogliendo, visto che la collezione è ancora in progress, solo fotografia italiana ed esclusivamente realizzata da fotografe. Il tema è caldo, e per certi versi sempre più sdoganato, ma si tratta ancora di una nicchia. Qual è il tuo sguardo sulla questione? 
«Quello che mi è parso evidente, da subito, è che per questo tipo di fotografia in Italia vi fosse pochissimo riconoscimento, per non parlare della fotografia femminile. Ed è molto strano che con tutta la buona fotografia che abbiamo in Italia non si dia contesto e dignità a questi esempi: non abbiamo un Winterthur, o una Maison de la Photographie, o un Le Bal, che poi quest’ultimo è nato su iniziativa di un fotografo. Per cui mi sono detta che, privatamente, potevo provare a costruire un percorso nella fotografia italiana. La questione delle donne è venuta abbastanza naturale, perché si tratta di un’onda “sommersa” ancora più affascinante. I cinquant’anni che ho deciso di raccontare con questa collezione mostrano il cambiamento epocale di tutto. Mi interessa la fotografia di impegno e di ricerca, e i decenni d’oro sono stati i ’70, ’80 e ’90, prima che saltassero tutte le definizioni». 
Marina Ballo, Primo campo senza titolo #4, 2001, stampa cromogenica a colori, 150x100
La fotografia oggi vive di un forte contrasto: da un lato è completamente democratica, dall’altro – proprio a causa di questo – le si riconoscono opposti valori, anche economicamente parlando
«La fotografia ha assunto oggi non solo più importanza nella nostra vita, ma anche a livello monetario. La differenza è che oggi è molto difficile vivere facendo fotografia. Osservando i decenni che scorrono, si nota chiaramente questo cambiamento di prospettiva e anche di produzione». 
Quando ha iniziato a collezionare?
«Questa collezione ha esattamente poco più di un anno di vita: si è focalizzata a Natale nel 2014, ed è iniziata ufficialmente a gennaio 2015 e poi, tramite una rete di relazioni che sono nate quasi per caso tutto si è incastrato. Poteva essere un disastro, ma quello che regge tutto è l’idea della destinazione di questa raccolta. Voglio che la fotografia italiana, e queste fotografe, abbiano il giusto riconoscimento, dove lo meritano. Ho voluto tenere un livello qualitativo altissimo, perché vorrei che questa raccolta possa servire da spunto per altre istituzioni che desiderano mettere mano a questo argomento». 
La definiresti una collezione femminista?
«No, anche se è diventata un po’ così. Ma c’è dentro la fotografia per l’editoria, ci sono denunce sociali. A me interessa l’impegno, e ho trovato che le donne siano state più coraggiose sul sociale. Il femminismo ha permesso questo: era l’unico modo, insieme alla scrittura, per raccontare cosa stava succedendo. Il movimento è stato per le donne italiane forse l’unico modo per entrare nella cultura, nella società, e la fotografia uno strumento politico». 
Gea Casolaro, Permanente presenza, pattuglia in servizio in montagna, 2007, stampa fotografica da digitale
Oltre ad aver definito i canoni, su cosa ti focalizzerai in futuro? 
«Per ora penso che vorrei restare nel range dell’ultimo cinquantennio. Volevo arrivare a un centinaio di pezzi: oggi ce ne sono una ottantina». 
E ci sono molte foto anche con soggetti femminili
«Sì, ma non sono foto “femminili”. Pensa a Letizia Battaglia (in collezione vediamo l’inquietantissima La bambina e il buio) o a Giovanna Borgese (di cui si aprono davanti a noi le stampe nude e crude di Un Paese dietro le sbarre): raccontano dell’Italia, dei grandi scandali, di fatti storici». 
C’è un grande bilanciamento anche tra cronaca e questioni “poetiche”
«Mi interessa molto anche l’autoritratto». 
Non ti è venuta l’idea di aprire questa casa al pubblico? 
«Ma non servirebbe a nulla. Idealmente vorrei portare una parte di queste foto a Villa Necchi Campiglio, e l’altra parte nel cubo trasparente di OVS in Corso Buenos Aires, o da Zara. Perché Ai Weiwei a Parigi va al supermercato e da noi no? La gente dovrebbe sbattere contro queste fotografie: qualcuno le aggirerà, altri proveranno ad entrarci. Voglio evitare il white cube o finire in una manifestazione settoriale. Certo, è vero che c’è bisogno di mostrare che esiste questa raccolta, ma se devo pensare a una collocazione ideale dovrebbe essere un percorso non esclusivo. Vorrei contaminare quanto più possibili diverse realtà, portarla all’estero, per cercare un vero riconoscimento e il senso della raccolta».
Allegra Martin, Double Bind, 2015

In Italia forse ci sono pochissime istituzioni che raccolgono fotografia, ma ci sono un sacco di festival e manifestazioni
«Sì, forse non avremo mai una casa per la fotografia, ma è necessario iniziare a veicolarla. E bisogna farlo con un percorso storico, organico. Perché in un museo non ci sono – accanto a Vedova, Fontana, o alla Transavanguardia – le ricerche fotografiche degli stessi anni?». 
Come ti orienti nel panorama di fiere, festival, gallerie?
«Compro sul primo mercato, o direttamente dalle artiste». 
Trovi che con la nuova tecnologia si sia persa l’inventiva e la freschezza che vi era nei volumi editati, per esempio, negli anni ’70?
«Sì, anche se a volte anche oggi vi sono esempi di coraggio rispetto a temi molto banalizzati, riletti con forza e con pochissimi mezzi a disposizione». 
Pensi che vi sia paura ad avvicinarsi a temi più sociali oggi? 
«Si parla molto di spreco, inquinamento, e penso che le fotografe singolarmente ci provino, ma non ho ancora visto niente di eclatante. Sai, fino a qualche decennio fa era più facile: oggi non si può più fotografare nulla: è un vulnus storico. Paradossalmente di certe cose resteranno solo filmati. Sul sociale il tema si è un po’ involuto, rarefatto». 
E raccogliere video?
«Il video esula dal mio filo rosso, anche se in realtà oggi sarebbe molto più semplice da collezionare».  
In alto: Anna Di Prospero, Self-portrait with my Mother, 2011  
Matteo Bergamini

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