09 maggio 2016

Una storia bellissima

 
Lui sole, lei satellite. Lui imponente, lei minuta. Sono Mario e Marisa Merz. Da riscoprire insieme al Macro di Roma

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La premessa potrebbe essere quella di rimanere delusi da una mostra che ha la pretesa di raccontare l’inarrivabile mondo che significano Mario e Marisa. Il rischio di raccontare – per l’ennesima volta – una storia che la Storia dell’arte ha descritto ampiamente, finendo per aggiungere una nuova dose di cose già dette, era dietro l’angolo. A sentir parlare dei Merz, la prima immagine che viene in mente è quella di Mario come uomo e artista mastodontico e Marisa, come donna e artista più fragile e delicata, che arriva in seconda battuta, che resta in secondo piano a brillare di luce riflessa. Nata alla fine degli Anni Cinquanta, la relazione tra i due comincia in un momento in cui Mario attraversa già un livello alto della sua carriera (la prima mostra presso la Galleria La Bussola di Torino risale al 1954) e Marisa non era ancora riuscita a trovare un suo posto all’interno della produzione artistica torinese contemporanea al periodo. Quello che scatta è un cortocircuito di idee, una crescita spontanea e reciproca, un arricchimento che trasforma ed evolve i lavori di entrambi, nonostante la critica e la risonanza di pubblico continui sempre a vedere e celebrare da una parte un Sole, dall’altra un pianta satellitare. 
Ad addentrarsi invece in Sto con quella curva di quella montagna che vedo riflessa in questo lago di vetro al tavolo di Mario – la mostra a cura di Claudio Crescentini, Costantino D’Orazio e Federica Pirani che il MACRO dedica a Mario e Marisa Merz – accade una cosa totalmente diversa. È come entrare in punta di piedi in uno spazio privato, intimo, che resta intatto dentro un involucro senza venire intaccato dal mondo esterno. È come vedere materializzata fisicamente quel titolo che torna, ripetutamente, Senza titolo (tavolo per Marisa) sintomatico di un patto non scritto e di una simbiosi personale, creativa, artistica. 
Mario Merz, Un segno nel Foro di Cesare, 2003, Neon, Courtesy Fondazione Merz, Torin
È uno spazio ordinato e metodico, dove entrambi gli artisti trovano eguale collocazione tra i fili dorati intessuti come fossero le corde di un’arpa o sovrapposti a formare un disegno di Marisa, superba nell’uso del rame o nell’intrecciare il nylon a creare le sue famose scarpette, che ne disegnano l’identità nell’assenza, evanescenti ed eteree; tra i grandi numeri di Fibonacci scritti da Mario nella sua famosa spirale in neon blu, perfetta nel dialogo con lo storico intervento dal titolo Un segno nel foro di Cesare che Merz realizzò nel 2003 nell’omonimo luogo, un’installazione che sottolinea la fortissima importanza simbolica che per l’artista assume la spirale: «In astronomia lo studio delle stelle e degli spazi intrastellari è quasi sempre correttamente preservabile attraverso spirali, quindi la spirale dai cieli celesti in questo caso si è spostata su un prato, che però è un prato particolare in quanto è un prato che copre delle tombe antiche e sostiene delle pietre di 2mila anni fa […]». La spirale diventa luogo dell’incontro tra i Merz, nei tavoli che l’artista realizza per la compagna per poter accogliere le sue opere. È un tempo di un abbraccio, tra la forza del tavolo – che allo stesso tempo ha la trasparenza del vetro – che lascia ‘vedere attraverso’ fino a trovare le piccole teste in argilla e terracotta di Marisa, una sequenza anch’essa come i numeri di Fibonacci, che cadenza lo spazio e che restituisce concretezza alla presenza di entrambi alla realizzazione dell’opera. 
Marisa Merz, Senza titolo, 1983, Bronzo. Collezione Marilena Bonomo. Courtesy Galleria Alessandra Bonomo, Roma
Completa l’opera la meravigliosa serie di fotografie di Claudio Abate, che raccontano un pezzo di storia, dalla storica performance in volo dall’aeroporto dell’Urbe che Marisa realizzò in collaborazione con Fabio Sargentini nel febbraio del 1970 – l’entusiasmo nel volto, la volta del cielo di Roma descritto da un tracciato che trasforma l’energia cinetica in segno artistico; o le installazioni alla Galleria L’Attico del 1975, fino alla serie realizzata presso il Villaggio dei Pescatori di Fregene, dove le scarpine di Marisa si posano sul bagnasciuga confondendosi con la spuma del mare. Immagini che restituiscono alla Merz una forza nel saper essere una donna, nel mondo dell’arte contemporanea, al fianco di un grande artista, nel suo gesto profondamente legato alla manualità del fare, dalla tessitura alla scultura, fino ai grandi angeli maestosi nei loro colori forti, seppur accompagnati dalla fragilità del supporto cartaceo. Immagini che restituiscono una coppia prima ancora che due identità artistiche, dove il tempo della creazione e produzione dell’opera e quello della vita si intrecciano, senza soluzione di continuità.
Alessandra Caldarelli
 

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