10 maggio 2016

Rappresentare il corpo

 
Incontro con Matthew Monahan, artista americano di scena a Palazzo Altemps, che si confronta con l’antico. Con radicalità e per smentire che sia una sconfitta annunciata

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Per la prima volta la sede del Museo Nazionale Romano di Palazzo Altemps ha aperto le porte all’arte contemporanea, per una mostra dell’artista californiano Matthew Monahan (Eureka, 1972), curata da Ludovico Pratesi, con un progetto che cerca e trova un dialogo stringente con le opere classiche esposte nelle sale.  Tra i più interessanti interpreti di un’idea di scultura contemporanea, Monahan è già noto al pubblico italiano per la sua partecipazione alla Biennale di Venezia del 2013, curata da Massimiliano Gioni, e per le mostre realizzate nella galleria di Massimo De Carlo, che ha sostenuto il progetto romano dell’artista. Tutte inedite le opere presentate- otto sculture in bronzo e alcuni disegni-  realizzate appositamente per l’occasione, come richiesto dalla direttrice di Palazzo Altemps, Alessandra Capodiferro, che ha accolto la proposta della mostra a patto che si accettasse la sfida di un confronto puntuale con l’antico e con il carattere e la storia degli spazi del museo. Cosa che Monahan ha fatto, a partire dall’opera che apre il percorso, posizionata nella fontana del cortile: un tronco in bronzo di figura umana che tiene tra le braccia un bambino,  salvandolo dalle acque, in dialogo con il sarcofago infantile che fa da sfondo ma anche con l’attualità di quanto accade nel Mediterraneo, a dimostrare che guardare al passato non significa necessariamente dimenticarsi dei tempi che viviamo.  Lo abbiamo incontrato in occasione della mostra romana.
Come è nato il progetto a Palazzo Altemps?
«Da una domanda di Flavio Del Monte [Institutional relations manager della galleria De Carlo NdR] “Ehi Matt, ti piacerebbe fare una mostra in un museo d’arte antica a Roma?”. “Naturalmente”, ho risposto, ma ero intimidito. Poco dopo mi sono trasferito in Europa per sei mesi, per una residenza in Olanda e durante quel periodo sono venuto a Roma. Ho chiamato Flavio e gli ho chiesto. “Qual è il museo che avevi in mente?”. “Ludovico Pratesi ha suggerito Palazzo Altemps”. Sono andato là e ho fatto la prima serie di foto».
Matthew Monahan Installation views Museo Romano in Palazzo Altemps, Roma 2016 Photo credit Giorgio Benni Courtesy Massimo De Carlo, Milan/London/Hong Kong
Quindi hai visto il museo prima di sapere se fosse realmente possibile farci una mostra e anche prima di capire se tu volevi veramente farla?
«Si, ma quando ho visto il posto ho notato subito le colonne senza capitelli e ho fotografato la fontana. Sono stato attratto dai “vuoti” nel museo, mi è sembrato che mi rivolgessero una specie d’invito. Non c’era niente di confermato, ma ho pensato: “Vorrei davvero lavorare qui”. E quando sono tornato in Olanda i colori dei miei disegni hanno iniziato a cambiare, come se la luce del Sud li avesse influenzati. La mia tavolozza è sempre stata nordica e questa cosa si è accentuata vivendo in Olanda e vedendo la pittura fiamminga.  Ma dopo esser stato a Roma i rosa e gli ocra hanno iniziato a farsi spazio nei miei lavori. Nessuno di quei disegni è in mostra, ma li ho usati come materiale da ritagliare per dar vita alle piccole carte che sono esposte a Palazzo Altemps insieme alle sculture».
Come ti sei relazionato al museo e alla sua collezione? Hai detto di esser stato attratto subito dai “vuoti”,  hai iniziato da quelli?
«È stato un buon punto di partenza, molto pratico! Mi ha sorpreso che ci fossero colonne che erano là senza una funzione. Con tutta la nobiltà della loro forma e del loro materiale, ma simili a una rovina, così come la fontana, con quella base di pietra nell’acqua, senza niente sopra. Sembrava che tutte queste cose fossero in attesa. Così ho iniziato a studiare il museo, partendo proprio dalla mancanze, dalle domande senza risposta, dalle imperfezioni, dalle cadute.  Ho scoperto che molte opere sono copie dai Greci, che altre sono parti di sculture romane con aggiunte molto posteriori, ricostruzioni anche del XIX secolo.  Dunque la collezione non è una testimonianza di un unico momento archeologico di perfezione e maestria ma un pastiche postmoderno, o postclassico. Solo allora ho iniziato a pensare che in quel pastiche poteva esserci spazio anche per il contemporaneo.  Inizialmente l’idea di confrontarsi con l’antico è impossibile, spaventa, è una sconfitta annunciata: il tempo dell’arte contemporanea non può misurarsi con “quel” tempo, è troppo. Ma quando ho realizzato che i tempi presenti in quel luogo erano molti, non uno solo, mi sono detto ” lasciamo che questa cosa continui”, e ho  aggiunto un altro strato».
Matthew Monahan Installation views Museo Romano in Palazzo Altemps, Roma 2016 Photo credit Giorgio Benni Courtesy Massimo De Carlo, Milan/London/Hong Kong
Essendo nato e cresciuto a Los Angeles immagino che il cinema abbia in qualche modo influenzato la tua formazione. Quanto sono importanti fiction e narrazione nel tuo lavoro?
«Los Angeles è la fine dell’avventura occidentale, potrebbe essere il luogo dove inizi a sognare ciò che ti sei lasciato dietro. Sono nato e cresciuto là, fino a 18 anni, quando ho iniziato a viaggiare a Est, per scoprire altre culture. Prima New York, poi l’Europa,  per dieci anni, poi la Cina, il Giappone.  Mio padre, che è un artista anche lui, ha lo studio con le pareti di finti mattoni. A Los Angeles c’erano edifici di mattoni alla fine dell’Ottocento, che ora appaiono sporchi e vecchi. Allora hanno iniziato a fare muri di poliestere stampato come vecchi mattoni, per dare la stessa idea di storia. Questo accade anche a Palazzo Altemps: tutti sogniamo un altro tempo, andiamo in Europa e pensiamo che quella sia la culla dell’antico, il luogo dove averne l’esperienza autentica. Poi capiamo che neanche là c’è l’autenticità che cerchiamo, anche se pochi se ne accorgono».
L’idea dell’arte classica ci è stata trasmessa in gran parte attraverso delle copie, dei falsi, diremmo oggi.
«Si a Los Angeles è tutto falso, ma poi vieni a Roma e capisci che è falso anche qui, che tutto è un’imitazione della Grecia.  A Palazzo Altemps ci sono solo due oggetti che si pensa siano greci, anche se poi mi hanno detto che il fatto che siano fatti di marmo greco non significa che provengano con certezza da là. Se si leggono le didascalie delle opere si capisce che ancora c’è incertezza, che ancora si cerca di capire il livello di autenticità, quale sia stato l’inizio. Vogliamo sempre partire dall’origine, dal principio della storia».

Matthew Monahan Installation views Museo Romano in Palazzo Altemps, Roma 2016 Photo credit Giorgio Benni Courtesy Massimo De Carlo, Milan/London/Hong Kong


Sicuramente l’origine era molto diversa dall’idea di classicità fatta di marmi bianchi e sereni che si è imposta a partire dal Neoclassicismo. Le sculture avevano colori anche brillanti.
«Certo, si sa ad esempio che la maggior parte delle sculture originali erano in bronzo.  Anche per questo ho scelto di usare questo materiale per la mostra, e anche perché non so scolpire il marmo. Sentivo il bisogno di un dialogo tra materiali nobili. I disegni che espongo cercano invece una relazione con gli affreschi, con la loro asciuttezza e anche con il mettere insieme frammenti diversi per ricostruire un’immagine.  Nel mio lavoro c’è molto rompere e aggiustare, come un processo archeologico accelerato; su ogni opera passano costantemente guerre e terremoti, forse anche a causa della mia insoddisfazione».
I tuoi lavori sembrano spesso, infatti, frammenti, rovine.
«Si, da una parte vorrei coltivare il mio lato da virtuoso, dall’altra lo combatto. C’è un aspetto barbarico e uno più acculturato in quello che faccio, due tendenze opposte che sono presenti entrambe in me, come forse in tutti. Si studia, ci si coltiva, si fa esercizio e si migliora e allo stesso tempo un’altra voce ti dice “chissenefrega! Tanto dobbiamo morire!”. Vorrei stabilità e odio la stabilità, ricerco una certa immagine, aspiro alla perfezione poi dico, “non è così che deve essere” e rompo tutto». 
Matthew Monahan Installation views Museo Romano in Palazzo Altemps, Roma 2016 Photo credit Giorgio Benni Courtesy Massimo De Carlo, Milan/London/Hong Kong
Dalla California ti sei trasferito a New York per studiare alla Cooper Union. Erano i primi anni Novanta, gli anni delle prime mostre di artisti come Matthew Barney e Rirkrit Tiravanija. Come ti ha influenzato quell’atmosfera? Da dove è venuto il tuo interesse per la figurazione?
«Di Rirkrit ho detto subito “non è per me”. Matthew inizialmente non volevo che mi piacesse ma poi, man mano che il lavoro andava avanti e affrontava problemi classici e lo faceva in un modo che riconoscevo autentico, attraverso il corpo, mi sono avvicinato. In un certo senso si poteva guardare ad entrambi, Rirkrit e Barney, in termini di ripensamento della figurazione e rifiuto del Minimalismo. Con Barney c’è stato il ritorno del corpo che si poteva vedere anche nel lavoro di Charlie Ray, di Mike Kelley e, più tardi, di Paul Mc Carthy.  Paul e Matthew hanno affrontato il corpo attraverso la performance, volevano mostrarlo dal vivo, senza la distanza della rappresentazione.  Invece con Charles Ray c’era la super distanza, il corpo era mediato dalla fotografia, dalla riproduzione meccanica. Allora ho pensato che disegnare e scolpire potessero essere una performance e che tutte le categorie che apparivano nuove, se guardavi indietro, capivi che non erano poi così nuove. Questo mi è stato chiaro soprattutto dopo esser venuto in Europa, dopo aver visto la Cappella Sistina, l’arroganza del nuovo mi è divenuta evidente dopo esser stato in Europa. Guardando Lucas Cranach ho pensato che era più estremo di quanto stava facendo Matthew Barney, di Charles Ray. E questa è stata la mia controrivoluzione, scoprire nei maestri dell’antichità una forma di radicalismo nel rappresentare il corpo, e anche nel rendere l’idea del corpo dell’artista, una soggettività dell’occhio inaspettata». 
Matthew Monahan Installation views Museo Romano in Palazzo Altemps, Roma 2016 Photo credit Giorgio Benni Courtesy Massimo De Carlo, Milan/London/Hong Kong
Nel tuo lavoro l’esecuzione, la manipolazione giocano un ruolo cruciale. Scolpisci, disegni, fai calchi, assembli e costruisci usando una grande varietà di materiali: dal gesso alle lastre di vetro, dalla schiuma all’olio, alla cera, alla carta, fino al bronzo. Qual è il tuo approccio al fare e all’uso della tecnica? Fino a che punto vuoi controllare il processo e quanto invece concedi al caso?
«L’immagine e la tecnica nascono nello stesso momento. Per me è un aspetto importante perché è come se mi chiedessi “penso questo perché ho un corpo oppure ho un corpo perché penso questo?”. Il gioco è tutto nella separazione tra oggetto e soggetto, il dramma filosofico che si esplicita quando si realizza un’opera. Moltiplichi il tuo corpo e la tecnica riguarda la distanza che permetti ci sia tra il tuo occhio e la tua mano. “La risposta alla domanda è semplice: sono coinvolto in prima persona in tutto ciò che produco, tutto conta per me, cerco di immaginare tutto ciò che può accadere, voglio conoscere tutti i problemi che possono esserci e voglio esser là per ogni soluzione. D’altro canto sono un casinista, un disastro totale, nello studio le cose cadono, si rompono, sgocciolano…. Quindi da un lato sono ossessionato dal controllo, dall’altro faccio confusione e credo che è così che debba essere, credo si veda in qualche modo nel lavoro e sarei triste se non si vedesse e se il lavoro apparisse troppo “elevato”. Nel classico mi interessa il modo in cui le persone dimenticano quanto è stato difficile realizzare quelle opere e solo quando una mano si spezza o la testa di una scultura cade allora si realizza che è fatta di pietra. Quando fai una scultura in bronzo e la buchi con il trapano per mettere una vite, allora ti ricordi che tutte le sculture sono fatte così, di uno strato sottile, di una pelle. Molte persone non lo sanno. Il volume maggiore di bronzo è dato dalla pelle e io cerco di ricordarlo a chi guarda. Quello che amo nelle rovine è che ricordano quanto difficile è stato costruire ciò che erano, è come se ti coinvolgessero nel processo, nella loro morte e nella loro nascita, come se l’opera fosse una cosa viva, che vive nel tempo». 
Cristiana Perrella

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