17 maggio 2016

Roma pop e violenta secondo Yan Pei-Ming

 
Non c’è solo Kentridge a lavorare sull’immaginario della Capitale. L’artista cinese, in mostra a Villa Medici, attraversa cinema, barocco e nerorealismo. Fino ad arrivare all’oggi

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Questo pezzo nasce per parlare della mostra di Yan Pei-Ming a Villa Medici, della sua interpretazione di Roma, ma inevitabilmente si è aperto a una riflessione più ampia sulla capitale, sulla sua possibilità di accogliere o provocare arte contemporanea malgrado la sua forte identità storica, a volte quasi paralizzante. Di conseguenza si è reso necessario accennare all’opera di William Kentridge sul Tevere (nonostante l’abbuffata di notizie e informazioni su di lui degli ultimi tempi ci abbia lasciati un poco appesantiti!) che inaspettatamente condivide alcuni aspetti con il ciclo di Pei-Ming, e seminare qualche punto interrogativo sulle prossime gesta contemporanee di “Par tibi, Roma, nihil” (con, tra gli altri: Buren, Attia e Xhafa per l’arte; Baricco e Solarino per il teatro; De Luca e Vascellari per la performance; Curran e il Santa Cecilia  per la musica), che attendiamo con ansia per giugno – si spera per lodarle.
Yan Pei-Ming abita a Digione, da quando lasciò la Cina trentaquattro anni fa. Me lo immagino quando avrà ricevuto l’offerta di fare una grande mostra a Villa Medici, lui, ex-borsista 1993-94, per il 350° compleanno dell’Accademia di Francia: lusingato, ma allo stesso tempo spaventato. Roma. Roma è una città facilissima e allo stesso tempo infernale per gli artisti.
Da secoli e secoli Roma è percorsa ogni anno da artisti stranieri in cerca di ispirazione, di solito borsisti di una delle numerose accademie culturali, oppure semplici viaggiatori. Uscirne bene, senza sporcarsi le mani di Grand Tour, può essere un’impresa: si rischia sempre di scivolare sulla china attraente e traditrice del pittoresco, oppure di essere intrappolati nella dimensione immobile, quasi stregata, dell’eterno passato, o comunque di rimanere stonati e confusi da quel labirinto di specchi dove storia e contemporaneo si riflettono all’infinito, in una mise en abyme impossibile da mettere a fuoco lucidamente.
Yan Pei-Ming, Villa Medici, Vista della mostra, foto di Claudio Abate
Pei-Ming allora ha escogitato un piano, passeggiando per la città eterna insieme al curatore Henri Loyrette – ex-borsista anche lui – che lo ha accompagnato in questa avventura. E il piano, ha funzionato? Vediamolo.
Punto di partenza sono alcune riletture di popolari opere di Caravaggio nello stile pittorico, quasi monocromatico, a larghe e grasse pennellate bianche e nere cui Pei-Ming ci ha abituato lungo gli anni. Seguono alcune scene prese da film cardinali dell’immaginario romano, quali Roma città aperta di Rossellini o Mamma Roma di Pasolini, e fin qui si potrebbe quasi pensare che la banalità e la ricerca dell’omaggio superficiale a Roma, abbiano preso il sopravvento; e che anche questo artista sia rimasto inesorabilmente stordito dall’alone pop di quelle categorie apparentemente ineludibili dell’immaginario pittoresco romano – la città del Barocco, di Caravaggio, delle rovine, del Neorealismo e di Cinecittà, eccetera, eccetera.
E invece Pei-Ming ci propone una lettura piuttosto personale e articolata dell’alma città, allo stesso tempo ibridandola con temi e umori caratteristici della sua specifica evoluzione pittorica.
Il fil rouge che lega i lavori esposti è quello della tragicità, di quella tragicità violenta, arcaica e irrazionale, che pervade da sempre la Storia umana, e in particolare la storia di Roma.
Yan Pei-Ming, Villa Medici, Vista della mostra, foto di Claudio Abate
Dunque i martìri dei santi, San Matteo, San Pietro, dipinti da Caravaggio, e restituiti nel loro formato originale a sottolineare il loro valore di pietra angolare della costruzione dell’artista cinese. Seguono altri episodi di violenza, veri o fittizi, di epoca contemporanea, tutti ben presenti nelle nostre menti: l’attentato a Giovanni Paolo II, o Pina crivellata dai colpi nazisti in Roma città aperta, o il ritrovamento del corpo di Aldo Moro, o Ettore di Mamma Roma legato al letto di contenzione, sono immagini tratte da fotografie di cronaca o still di film ormai pop, restituiteci da Pei-Ming digerite alla sua maniera. Anche la Fontana di Trevi, che vuole ruffianamente evocare l’incontro di Marcello Mastroianni e Anita Ekberg de La Dolce Vita, è rappresentata invece vuota, in una luce drammaticamente bluastra e lunare.
Gli unici tocchi di colore, a interrompere l’inflessibile flusso monocromatico delle opere, appaiono il vestito rosso della salma di Giovanni Paolo II durante la veglia, e le quattro varianti acide (acrobazia cromatica assolutamente inusuale per Pei-Ming) del ritratto di Innocenzo X eseguito da Velasquez, il papa dalla tormentata interiorità che tanto turbò l’immaginario di Francis Bacon.
Per il resto, un’atmosfera notturna, cupa e pesante, ci segue al piano superiore dove si chiude il teorema di Pei-Ming, e la tragicità romana sembra uscire dai suoi confini, e assumere un tono più globale.
Yan Pei-Ming, Jean paul II bless – photo André Morin, © Yan Pei-Ming, ADAGP, Paris, 2015.
Se anche una riflessione sulle rovine c’è – in questo caso un trittico di Ruines du temps reél, rovine in tempo reale – non ha niente di pittoresco, e diventa esistenziale: sono rovine vere, o inventate, o forse tutte e due. Sono le rovine dei fori romani, le rovine di Palmira, che tante memorie recenti e nefaste ci suscitano, ed anche le rovine di moderne palazzine sventrate e abbandonate, in un regno intermedio tra la visione onirica e la verità delle infinite zone di guerra che i media ci vomitano addosso quasi ogni giorno.
Inevitabile un accenno a quella zona di guerra che stanno diventando le coste mediterranee: la dimensione di una tragicità umana esistenziale è monumentalizzata in finale di mostra attraverso due grandi tele, tra le più cupe mai prodotte da Pei-Ming, in cui sono a fatica riconoscibili dei barconi, qualche corpo, persi in un mare brulicante di pittura densa, spenta e sorda.
Curiosamente, alcuni dei soggetti trattati da Pei-Ming sono stati immortalati anche da Kentridge nei suoi Triumphs and Laments (la Renault 4 con il corpo di Moro, la Pina-Anna Magnani morente di Roma città aperta, oppure Marcello e Anita, non nella fontana ma in una vasca da bagno), che con le tele dell’artista cinese condividono l’approccio monocromatico, oltre a un tono simile seppur diluito in una gran diversità.
Yan Pei-Ming, Villa Medici, Vista della mostra, foto di Claudio Abate
Mentre Pei-Ming ritorna alla grande pittura ottocentesca di storia, attraverso il Pop e la pittura informale, da lui intesa come pittura-guerra, pittura di violenza, con le quali si era formato,
il sudafricano Kentridge traduce la storia di Roma nel proprio linguaggio poetico, senza concessioni al Pop, ma trasformando in un teatrino delle ombre le sconfitte e vittorie della storia di Roma, momenti drammatici e trovate ironiche e surreali, come se fossero le due facce di una stessa medaglia. E ricordando, paradossalmente facendosi molto più orientale di Pei-Ming, quanto tutto questo sia effimero, impermanente.
Terzo incomodo tra i due, arriva il recente progetto multidisciplinare “Par tibi, Roma, nihil” con il quale ancora una volta si vuole tentare l’innesto antico-contemporaneo. Riusciranno gli artisti coinvolti a far dialogare i due mondi in un modo strutturato e forte, senza far apparire le rovine come un piedistallo pittoresco per opere contemporanee avulse dal contesto, oppure ad evitare l’effetto mélange antico e moderno da rivista di arredamento? 
Mario Finazzi

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