30 maggio 2016

La Polonia che sorprende

 
Dopo cinque secoli di dominazione straniera, la Polonia conosce per la prima volta la democrazia. Vitalità e fermento sono palpabili. Come racconta la mostra a Modena

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«La memoria finalmente ha quel che cercava», scriveva il premio Nobel Wisława Szymborska, come incipit di una delle sue più emozionanti poesie. All’autrice, ormai in età avanzata, in sogno le è concesso di ricongiungersi alle sue origini perdute, di rivedersi accanto ai suoi genitori, quasi di riuscire a poterli toccare come se fossero ancora vivi. E sulla scia della parole di Szymborska, la memoria intima e privata di una singola persona si fa paradigma per la storia di un’intera collettività, quella polacca, ricostruita attraverso gli ultimi trent’anni di ricerca artistica, in una mostra ospitata ancora per pochi giorni, fino al 5 giugno, all’interno della Palazzina dei Giardini della Galleria Civica di Modena. 
“La Memoria Finalmente” a cura di Marinella Paderni e in collaborazione con l’Istituto Polacco di Roma, è una mostra che fa riflettere e porta a interrogarci sulla storia di un popolo, che oggi conosce l’indipendenza per la prima volta dopo cinque secoli di dominio straniero. Dal crollo del Muro di Berlino e dalle seguenti prime elezioni libere con la vittoria del gruppo di Solidarność, la Polonia ha cominciato ad affrontare il suo cambiamento verso un regime democratico, arrivando oggi a vivere un momento di pieno fermento e rinascita culturale. Come tutti i Paesi dell’ex blocco sovietico, ha dovuto affrontare un importante processo di ricostruzione della propria storia identitaria, della propria memoria, dopo decenni di forzata anamnesi soprattutto legata al ruolo storico del governo polacco nei confronti delle locali comunità ebraiche. Tre milioni e cinquecentomila persone uccise, deportate o scappate dalla loro terra. Una violenza dimenticata per decenni da tutti. Un processo di ricostruzione storica lungo e spesso doloroso che vede indissolubilmente intrecciate vite private e storie collettive, come magistralmente raccontato da Paweł Pawlikowski nel suo film capolavoro, Ida
Iza Tarasewicz The Means, The Milieu 2, 2014-2015 acciaio, asfalto e caucciù, fibre di canapa, cenere, ocra, cemento, funghi Reishi collezione privata, Torino foto Paolo Terzi
La Polonia vive in uno stato di “non-memoria”, suggerisce il filosofo Andrzej Leder, che nel catalogo che accompagna la mostra edito da Silvana Editoriale, osserva come nel tempo sia stata creata «una memoria fantasmatica, mitologizzata, spesso scritta giorno per giorno per colmare lacune e silenzi […] Per una parte degli artisti fare i conti con questa rimozione ha significato il ritorno a una realtà pre-storico o ultra-storica, a una natura idealizzata o a una fantasmatica tradizione […] Allo stesso tempo però nel campo dell’arte si è verificato un enorme “lavoro di memoria”, che ha cambiato la geometria della sensibilità polacca e i suoi punti di riferimento fondamentali». E sono le generazioni di artisti più giovani, quelle nate dopo il 1980 per intenderci, che si sono maggiormente scontrate e continuano a fare i conti con questi silenzi, che hanno iniziato a rompere il muro della “non-memoria” imposta nei confronti dello sterminio ebraico avvenuto in terra polacca. 
La memoria finalmente. Arte in Polonia 1989-2015 Galleria civica di Modena, vista della mostra
Forte ed esemplare il gesto di Ewa Axelrad (1984), che decide di cambiare il suo cognome con quello della nonna materna, di evidenti origini semitiche, per rinsaldare il rapporto con le proprie origini perdute. La sua ricerca mescola ricordi personali e memorie collettive, estrapolati dal loro contesto originale e resi parte di una rappresentazione universale. Nel suo Minimum, Necessary, Objectively, Reasaneble (2015) protagonista è la relazione tra il concetto di violenza e l’idea del controllo: un piumino antisommossa e una sequenza di mani in terra cruda disposte a ricordare un massaggio di rianimazione cardiaca, sono i chiari segni di una rivolta che il titolo identifica nella sommossa della popolazione afroamericana contro la polizia di Baltimora, dopo l’uccisione di Freddie Gray.  Alla stessa generazione di Axelrad appartengono Anna Molska, Agnieszka Polska, Iza Tarasewicz e Jakub Woynarowski. Anna Molska, classe 1983, mescola video e performance, in una ricerca improntata allo studio delle peculiarità della cultura polacca, prima schiacciata dalla dominazione sovietica e oggi minacciata dalla stretta vicinanza ai costumi occidentali. In Tanagram (2006-2007), due giovani ormai alla soglia della maturità spostano e manipolano un enorme puzzle tridimensionale, in un apparente movimento continuo e senza senso, quasi una danza, che riporta nella scena finale la ricostruzione del Quadrato nero su fondo Bianco di Malevic, mentre l’artista rincalza il rimando alla cultura sovietica proponendo in loop una canzone popolare dell’Armata Rossa.  
Anna Molska Tanagram, 2006-2007 (film still) video 5’10’’ courtesy the artist and Foksal Gallery Foundation, Warsaw
Sempre nell’ambito della ricerca video, Agnieszka Polska (1985), rielabora immagini di vecchie fotografie, animandole e creando dei delicati e raffinati tableaux vivants ricchi di echi surrealisti e onirici: Correction Exercises (2008) s’ispira alla medicina dei primi del Novecento, presentando movimenti ritmici ed esercizi ginnici quali simboli di un potere oscuro che forza e condiziona i corpi liberi e sensuali delle giovani fanciulle. Iza Tarasewicz (1981) è invece interessata al recupero di un linguaggio scultoreo, proponendo strutture in cui si intrecciano forme dal richiamo al mondo organico e artificiale, dove la memoria è indagata nella traccia biologica che è impressa in ognuno di noi. 
Tra gli artisti presenti in mostra che rappresentano la generazione di mezzo, tra la nuova e la vecchia guardia dell’arte polacca, Nicolas Grospierre (1975) ricerca le tracce di una memoria personale, quella legata alla prima infanzia di Rothko, prima che l’artista lituano lasciasse il suo Paese per emigrare con la famiglia negli Stati Uniti. Arrivato lì, in quei luoghi dove Rothko non è più tornato in vita sua, Grospierre si è interrogato sulla possibilità della fotografia di poter esprimere la precarietà di un ricordo lontano nella memoria, riuscendoci egregiamente nell’opera in mostra (Dinaburg, Borisolglebsk, Dvinsk, Daugavpils, 2013) grazie all’ausilio di una teca di plexiglass che scompone la visione dell’immagine in più parti rendendone impossibile un punto di osservazione unico, e sfocandone alcune. Questa alternanza di visibilità e non visibilità si impone come una prese di coscienza da parte dell’osservatore dei propri limiti sulla visione e la conoscenza. Alla generazione di Grospierre appartengono anche gli altri artisti in mostra, tra cui Michał Budny (1976), Michał Grochowiak (1977), Paulina Olowska  (1976) e il duo Slavs and Tatars
Miroslaw Bałka 370 x 40 x 53, 2003 acciaio, piatto di stagno, linoleum, corda, cera, meccanismo di rotazione courtesy collezione privata, Galleria Raffaella Cortese, Milano and the artist foto Paolo Terzi
Infine, sono presenti a Modena anche due dei grandi maestri della recente scena artistica polacca: Paweł Althamer e Mirosław Bałka. Ad Althamer (1967), il compito di aprire il percorso espositivo, nella sala d’ingresso della Palazzina dei Giardini, dove propone una nuova versione dell’installazione The Venetians (2013) realizzata in occasione della 55esima Biennale: un progetto di arte partecipata in cui amici e conoscenti hanno prestato il loro volto per un grande autoritratto collettivo, che l’artista innestava su corpi alieni e figure indefinite. Nella sua mancanza e scarnificazione, il corpo diventa centrale, inteso da Althamer come il simbolo della perdita dell’identità umana, che stride con la presenza di un volto così particolareggiato, in cui aleggia il ricordo della propria essenza, della propria anima. Il rapporto tra memoria personale e collettiva è centrale nel lavoro di Bałka, presente a Modena con ben tre lavori significativi della sua ricerca, in cui si mescolano inscindibilmente attenzione per il corpo, continui rimandi alla storia dell’arte e alle influenze della religione cattolica nella vita di ogni giorno. 
In conclusione, attraverso le significative scelte curatoriali di Paderni, percorriamo un percorso in cui la memoria della storia polacca si fa modello per un’esperienza intima e personale, in cui, per dirla con le parole della curatrice, comprendiamo come essa sia «un reagente che modella la forma del presente, che insegna a immaginare le promesse del futuro, grazie alla quale per la prima volta la Polonia può scrivere la sua storia in una prospettiva temporale estesa, senza il pesante fardello delle dominazioni straniere». 
Leonardo Regano

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