07 giugno 2016

Francesco Jodice, tra realtà e finzione

 
È in questo crinale che l’artista si esprime al meglio. Laddove le pratiche dell’indagine sociale si intersecano con quelle dell’arte. Come dimostra l’antologica di scena a Torino

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Panorama è la prima grande rassegna dedicata all’opera di Francesco Jodice, artista tra i più interessanti sulla scena internazionale. Jodice, più di molti altri, rappresenta la nuova figura di artista in cui le pratiche dell’indagine sociale si intersecano con quelle dell’arte, non limitandosi all’esito antropologico, ma fondendosi con il fare artistico per dar vita ad una specificità sia di contenuto che estetica. Se si pone il discorso nei termini di alta qualità e di equilibrio espressivo, diventa superata la distinzione di merito tra le pratiche usate. Soprattutto tra arte (visiva) e fotografia. Tra fotografo e artista. Distinzione che tuttavia sopravvive anche se nell’era della globalizzazione e della rete risulta anacronistica. 
Di questa posizione Francesco Jodice ne è stato anticipatore. Basti ricordare, la partecipazione con il collettivo di ricerca territoriale Multiplicity a Documenta 11 (due soli artisti italiani invitati) con un video su un tema allora non ancora compreso nella sua dimensione globale, quello delle migrazioni (Solid Sea, 2002, ora riproposto in mostra in un nuovo allestimento). Da allora, in vent’anni, Jodice ha realizzato una produzione che spazia, per quanto riguarda i mezzi espressivi, dalla fotografia al video, all’installazione e, per quanto riguarda i contenuti, verrebbe da dire, dall’antropologia alla poetica visiva. Ma più ancora – e qui sta il dato saliente – innescava un unico processo creativo utilizzando i diversi mezzi espressivi (foto, cinema, video, installazione) e, da un punto di vista teorico, apriva il campo alle pratiche di indagine e relazionali. L’esito è un’opera che, nel momento in cui si palesa e coinvolge il pubblico nel processo di documentazione e di indagine, ha la capacità di elevarsi a prodotto artistico.
Francesco Jodice, What We Want, Tokyo, T03, 1999
Tutto ciò viene sottolineato dal percorso della mostra – presentata a Camera, Centro Italiano per la fotografia (Torino, fino al 14 agosto) – che il curatore Francesco Zanot, con una scelta basilare, ha incentrato su sei luoghi-installazioni emblematici della produzione di Jodice, dagli esordi a oggi. Una lunga struttura modulare di oltre 40 metri, posta nel corridoio, collega le varie sale espositive e al contempo permette, grazie ai materiali esposti (libri, foto, progetti, materiali di backstage, ecc.), di conoscere gli spunti, le motivazioni e le riflessioni che hanno dato vita alle pratiche da cui ogni opera prende avvio. Non si tratta di un procedere lineare ma volutamente di “rete”, dove l’opera come esito finale svela nuove relazioni, invita a scoprire nuovi sistemi e nuovi mondi. Si instaura così una logica espositiva combinatoria dove il visitatore crea un suo percorso, dove la fotografia scolastica di fine anno (Ritratti di classe, 2005-2009) svela trasformazioni sociali e culturali per poi rimandarci a scenari globali e geopolitici. 
Francesco Jodice, What We Want, Phi Phi Ley, R18, 2003
Le 150 metropoli di What We Want, 1995-2016, vanno a formare un atlante fotografico, iniziato nel 1996. Composto da paesaggi urbani che mutano assumendo le caratteristiche della comunità che li vive. Paesaggi sempre più globalizzati che non possono essere interpretati tramite un unico punto di vista così come non possono essere resi con un metodo tradizionale. Lo sguardo dell’artista diviene relazionale nella considerazione dell’altro, utilizzando un approccio multidisciplinare che spazia dalla topografia, alla fotografia umanistica, all’arte concettuale, al montaggio e alla scrittura. Lavoro in progress sui mutamenti di paesaggi urbani che allo stesso tempo si dichiara, già nella sua sostanza, come progetto senza un termine nel mutare continuo del paesaggio e del tessuto sociale. Allo stesso modo le immagini che ritraggono cittadini pedinati di nascosto nel progetto The Secret Traces (1997-2007) ci fanno percepire il loro essere parte di un contesto urbano dalle specifiche caratteristiche, ma ancor più svelano la precarietà di un’identità giocata quotidianamente in un ambiente urbano e sociale sempre più fluidificante, mutante, non più metropoli moderna, ma non ancora centro futuribile tra reale e virtuale. 
Francesco Jodice, Ritratti di calsse, Torino, #002, 2005
Nel fissare i loro percorsi, Jodice compie un’azione di svelamento, delle persone e dei luoghi ma soprattutto ci apre un’inquietante riflessione sulla condizione umana. Riflessione che viene ripresa, passando dall’individuale al collettivo, con The Room (2009-2016), installazione costituita da una stanza le cui pareti sono coperte da pagine di quotidiani cancellate da uno strato di vernice nera. Nell’ambiente buio sono leggibili solo poche parole. L’artista, con una modalità tanto elementare quanto efficace, oscura il flusso invasivo della comunicazione quotidiana che ci avvolge e, lasciando pochi spazi di comunicazione, innesca un dispositivo tramite il quale dalla moltitudine dei messaggi ormai senza senso si evoca la forza del significato. Ma è in Citytellers (2006-2010), film dedicati a tre casi emblematici di aberrazioni geopolitiche globali che l’artista raggiunge una compiutezza in cui la ricerca antropologico/documentaristica si sublima in opera d’arte visiva. 
Francesco Jodice, Yasuaki, Hikikomori, 2004
In São Paulo la narrazione indaga sulle forme di autogestione nella megalopoli brasiliana. In Aral, il lago distrutto dall’umana stupidità diviene emblema del suicidio ecologico in atto. Dubai, vera e propria cattedrale nel deserto del lusso e della ricchezza sorta su uno sfruttamento che ricorda la schiavitù, ci invita a riflettere sulle dinamiche della globalizzazione tra falsi miti e dignità umana. Ma tutti i film, a ben vedere, traggono forza e ci affascinano per la capacità dell’artista di passare dal piano documentaristico a quello artistico senza perdere gli elementi costitutivi e specifici. In tutti compare, con accenti a volte più marcati, quel momento di “brillatura” – mutuando la definizione da Slavoj Žižek – in cui si ha uno scollamento tra realtà e finzione. Il passaggio avviene con minime variazioni come quando la narrazione filmica indugia su un frame fisso facendolo divenire emblematico. “La brillatura” lo esalta favorendo il passaggio dal discorso antropologico a quello della potenzialità artistica.  
Massimo Melotti 

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