29 giugno 2016

Come ti rigenero la città

 
Rigenerare e cambiare. Apprendere dai limiti del passato ed elaborare nuove visioni e nuove pratiche. Che passano per l’immaterialità della cultura. Per esempio a Napoli …

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Il nuovo imperativo del governo del territorio ha un mantra che riassume in una piccola locuzione “urban renewal” o “urban regeneration” una mole di lavoro e una gestione delle complessità che non viene debitamente riconosciuta nella maggior parte dei casi.
E questo non soltanto nei processi concreti di riconversione territoriale e quindi negli aspetti più prettamente tecnici, urbanistici e gestionali, ma anche e soprattutto negli aspetti più soft e progettuali. Rigenerare, va bene. Ma rigenerare cosa? E soprattutto, attraverso quali percorsi?
Che la rigenerazione urbana emerga come una necessità è un dato incontrovertibile: strade, acquedotti e altre infrastrutture materiali necessitano di manutenzione ordinaria e straordinaria e sono soggette ad una obsolescenza breve (che nella maggior parte dei casi ha durata massimo decennale).
Una necessità antica, se vogliamo (in alcuni paesini del sud Italia ancora è radicato il pensiero che la “sinistra faccia le fogne” e la “democrazia cristiana le strade”), alla quale si sono aggiunti sempre più asset che vengono posti al centro della vita urbana, e in particolar modo quegli asset immateriali che sono la cifra caratterizzante del nostro tempo: cultura, qualità sociale, controllo sociale.
Non è un caso, quindi, che l’iter della rigenerazione coinvolga sempre più la sfera culturale, la vita associativa e, in generale, una serie di fattori di sviluppo soft in grado di garantire non solo il riassestamento delle infrastrutture materiali di un dato quartiere, ma anche e soprattutto quegli “intangibili” in grado di generare uno sviluppo di medio periodo.
L'ex Gasometro di Vienna diventa un condominio
In che modo dunque si può fare rigenerazione attraverso la cultura? Negli ultimi anni, come così tante volte è stato detto, il modello Bilbao ha giocato un ruolo che ha generato numerose emulazioni in tutto il mondo. Questo modello, sebbene applicato in modo ogni volta diverso, prevede che ci sia una programmazione di medio periodo (dieci-venti anni), la realizzazione di una iniziativa faro (a Bilbao il Guggenheim, a Roma il MAXXI o il Teatro Tor Bella Monaca) e una serie di iniziative che mirino a riconvertire il quartiere (o l’intera città) da una economia a prevalente componente industriale ad una a prevalente componente immateriale (o di servizio). 
Questo modello, che ha avuto molto successo, tuttavia, ha iniziato con il tempo a mostrare i propri limiti: una programmazione così lunga non si concilia con i tempi della politica, le risorse necessarie a realizzare questi interventi sono piuttosto ingenti, e gli interessi sono spesso legati alla componente più prettamente immobiliare, riducendo la cultura a mero produttore di contenuti, a riempi-edifici.
Un esempio di questo approccio è adesso in atto con il “bando delle periferie”: un bando con risorse ingenti ma con tempi del tutto fuori luogo, sia per la “velocità” con cui bisogna già disporre dei progetti sia per il “timing” che è stato fissato a ridosso delle elezioni (quasi un implicito tentativo di mantenere le giunte inalterate). 
Le risorse pubbliche, inoltre, non possono essere sufficienti al rilancio di tutte le aree cittadine: ci saranno aree che nel PGT (Piano de Governo del Territorio) assumono una valenza particolare, mentre altre che passano in secondo piano. A questo approccio pubblico si è via via affermato un approccio più partecipativo, democratico e privato. Si tratta di interventi posti in essere da attori privati (società, associazioni culturali) che mirano a riqualificare in primo luogo gli asset immateriali di un territorio, e che vedono nell’aspetto più prettamente immobiliare un mezzo e non il fine. 
Elmgreen & Dragset, Van Gogh ear, Rockefeller Center New York
Il pregio di questi interventi è nella possibilità di decidere rapidamente (nei limiti imposti dagli iter che bisogna seguire), e di decidere ad un livello di disintermediazione informativa notevole. Inoltre questi interventi, sebbene si contraddistinguano per una minore scala di investimenti, hanno più forti radici nel territorio in cui vengono realizzati e spesso sono il frutto di progetti che vedono la partecipazione attiva di più attori sociali presenti in esso.
Un caso recente è quello rappresentato dal quartiere partenopeo di Porta Capuana, zona caratterizzata da livelli di difficoltà sociale ed economica, pur essendo un quartiere che congiunge la rinnovata Stazione di Napoli con il Centro Storico della Città, e pur essendo storicamente un quartiere ad alta specializzazione produttiva e artigianale. Nel quartiere, negli ultimi anni, si sono avvicendati vari interventi (in principio autonomi, poi messi a sistema attraverso la creazione dell’associazione I Love Porta Capuana) che hanno visto il ruolo attivo di università, associazioni della società civile, e degli interventi creati ad hoc per il programma Urbact dell’Unione Europea. L’attenzione posta in essere sul quartiere ha iniziato ad attirare investimenti da parte di privati legati al territorio, e, da ultimo, si segnala la realizzazione di Made in Cloister, un centro polifunzionale che ha recuperato il Chiostro di Santa Caterina a Formiello realizzando un centro che coniuga esposizioni di arte contemporanea e produzione ed esposizione di prodotti artigianali di alto profilo.
Questo caso è solo uno dei moltissimi esempi che vede il privato “scommettere” sulla rinascita di intere zone della città. Ed è proprio questo uno degli aspetti più interessanti. Si può affermare che la rigenerazione urbana degli ultimi anni si possa dividere in grandi interventi (gestiti pubblicamente) ed interventi mirati (che vedono il coinvolgimento privato sempre più preponderante). Nessuno dei due è superfluo, ed entrambi giovano la collettività. 
Napoli, Made in Cloister
Prenderne atto è importante, perché da un lato è ancora purtroppo necessario ricordare che l’interesse privato e quello personale non sempre coincidono, dall’altro un comportamento così virtuoso da parte del privato meriterebbe di essere oggetto di indagini da parte degli attori pubblici, soprattutto al fine di agevolarne l’emersione. Politiche fiscali, contributi, deduzioni (e non detrazioni) in caso di mancato profitto, potrebbero essere degli incentivi che favoriscano sempre più privati a scommettere sulla rinascita del territorio. Così come potrebbero essere utili i processi agevolati di creazione di associazioni di “interessi proprietari” nei quartieri, interventi di formazione che mirino a far crescere la consapevolezza tra i proprietari che è possibile con investimenti di media dimensione creare nuove modalità di fruizione del territorio e con essa un maggior controllo sociale, una maggiore qualità ambientale, un più elevato livello di qualità della vita.
La sfida della rigenerazione è troppo grande perché il Pubblico, da solo, possa riuscire a rimodernare tutti i quartieri di tutte le città: questo è un fatto. Prenderne atto, e avviare procedimenti di avvicinamento in questo senso, deve esserne la naturale conseguenza. 

Stefano Monti

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