09 luglio 2016

La memoria dell’acqua/ Parla Atul Bhalla

 
Dal fiume Yamuna al Tevere. Da Delhi a Roma. Nel suo lavoro l’artista indiano ripercorre senso e riti legati all’acqua. Scoprendo che i Nasoni della Capitale …

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L’acqua. Quella del fiume Yamuna (uno dei maggiori affluenti del Gange, ndr), quella che scorre sotto i nostri piedi negli acquedotti delle città, l’acqua di una pozzanghera, l’acqua racchiusa in un bicchiere, l’acqua di cui siamo fatti noi stessi. L’acqua in tutte le sue forme e con tutti i suoi significati, è al centro del lavoro di Atul Bhalla (1964), artista concettuale tra i più apprezzati in India e internazionalmente, invitato dalla Fondazione Find  – Fondazione India-Europa di Nuovi Dialoghi – durante il Summer Mela Festival che si è tenuto all’Accademia Filarmonica Romana,  dal 21 giugno al 5 luglio. La sua installazione nei giardini rimane però fino al 15 luglio. L’abbiamo intervistato.   
Quanto il tema dell’acqua ha a che fare con le sue radici culturali e quanto invece con il tema più in generale dell’ambiente in rapido cambiamento?
«Sono cresciuto a Delhi negli anni Sessanta con il problema della carenza di acqua, un problema rimasto praticamente ancora irrisolto e difficilmente percepibile nella sua gravità per chi arriva in questa città come semplice visitatore. Delhi è una città molto secca, basti pensare che in media ci sono solo 17 giorni di piaggia in tutto l’anno. Quando ero piccolo, l’acqua veniva erogata nelle case solo un’ora la mattina (all’incirca dalle 6 alle 7) ed un’ora la sera e per sapere esattamente quando sarebbe arrivata e non sprecarne neanche una goccia, a casa lasciavamo i rubinetti aperti. Così il mio ricordo d’infanzia è il suono dell’acqua che mi svegliava la mattina irrompendo dai rubinetti aperti. Quindi, per rispondere alla sua domanda, sì, il tema dell’acqua è strettamente legato alle mie radici, all’India, a Delhi e anche alla mia religione. Io sono Induista e l’acqua è una componente fondamentale della nostra religione e dei nostri rituali». 
Atul Bhalla, vista dell'installazione, copyright Mario d'Angelo
Nei suoi lavori ricorre però un riferimento non solo generico all’acqua, ma anche più specifico ai fiumi.
«Nella mia vita ci sono stati due eventi che definirei “catartici”. Io sono cresciuto a west Delhi, che non è la zona più ricca della città. Lì la prima piscina pubblica è stata costruita solo nel 1998 ed è allora che ho scoperto quanto fosse catartico immergermi in quell’acqua, sentirmi avvolgere dall’acqua, percepire quanto questo elemento sia parte di me. E da allora ho cercato di portare questa esperienza nel mio lavoro. Il secondo episodio di “catarsi” è accaduto durante un viaggio a Bombay su un treno in una carrozza di seconda classe. Era la stagione del monsone e io mi sono seduto davanti alla porta della carrozza che è sempre aperta sui treni indiani. Ad un certo punto il treno si è fermato su un ponte mentre attraversavamo un fiume in piena, io lo vedevo sotto di me e sentivo che avrei dovuto saltare…non che sarei caduto, ma che avrei dovuto saltare. C’era qualcosa che mi chiamava, che mi spingeva quasi a farlo. Da qui ha avuto origine il mio lavoro “Jump/Fall”».
Quand’è che il suo lavoro esce dai confini dell’India per diventare un lavoro “globale”?
«Io non sono uno di quegli artisti che ambisce a diventare “globale”, credo che l’artista è sempre “locale”, le radici sono nella tua cultura, puoi vivere dovunque, ma hai sempre bisogno di capire da dove vieni. Per quanto mi riguarda io vivo a Delhi, vicino alle rive dello Yamuna, sono indiano, le mie radici sono quelle. Ma il tema dell’acqua è universale. Ho fatto un progetto a Shangai, per esempio, in cui ho ascoltato l’acqua scorrere sotto la strada in diversi luoghi della città. È un modo per entrare in sintonia con i luoghi, ascoltare la storia della città. È così che sono diventato un viaggiatore che ascolta la città. È un lavoro sull’immersione nella città, ed io mi sono immerso in Shangai».
Atul Bhalla, vista dell'installazione, copyright Mario d'Angelo
Anche i testi sacri dell’induismo entrano nei suoi lavori, in che modo?
«Uno degli episodi più famosi e significativi del Mahābhārata è quello in cui un Lago magico rivolge ad Yudhishthira molte domande e il maggiore dei fratelli Pandava fornisce sagge risposte. Queste domande sono entrate a far parte di molti dei miei lavori, a partire da quello che ho realizzato ad Amburgo. Delle decine di domande, quindici sono nel Mahābhārata di Peter Brook che ho amato molto e sono state riformulate per questo progetto di Arte Pubblica in Germania. Il dio Dharma chiede a Yudhishthira: cos’è più veloce del vento? il pensiero. Cosa può ricoprire tutta la terra? Le tenebre. Qual è il tuo opposto? Me stesso. Cos’è il dolore? L’ignoranza. Cos’è la pazzia? La strada perduta. Queste sono diventate le mie domande».
Se l’acqua e i fiumi sono al centro del suo lavoro, Roma con le sue fontane e con il Tevere che l’attraversa, cosa le ha ispirato?
«Sì, Roma è stata una fonte di grande ispirazione. Ho amato in modo particolare i “nasoni”, queste fontane dalle quali bere è molto particolare, sono un modo originale della città di Roma di instaurare un rapporto con l’acqua: io sono molto interessato alla particolarità dell’esperienza nell’atto di bere. Quando bevo l’acqua la mia saliva, il mio dna, entrano nell’acqua e la contaminano, così l’acqua diventa me stesso ed i nasoni istaurano un rapporto particolare tra l’acqua e chi la beve. E poi è meraviglioso girare la mattina presto per Roma e riconoscere la presenza di un nasone ascoltando il rumore dell’acqua. Questo progetto su Roma e sui suoi nasoni lo porterò in India». 
Atul Bhalla, Looking for lost water
E cosa ci racconta della installazione site specific che ha  portato ai Giardini dell’Accademia Filarmonica Romana per il Summer Mela, visibile fino al 16 luglio?
«L’istallazione di Roma – il cui titolo è Looking for lost water – parte dal lavoro fatto ad Amburgo e pone le stesse domande che voglio portare in giro per il mondo. Ne mostrerò cinque a Roma, tradotte in italiano».
Per concludere: in che misura il suo può essere considerato anche un lavoro politico?
«Può essere considerato un lavoro politico in quanto è un modo di far diventare la gente consapevole di qualcos’altro, di ciò che è dietro le cose. La politica è uno dei livelli del mio sentire, della mia estetica corporea, come è stata definita. L’ estetica è filtrata dalla tua esperienza personale è per questo che io figuro quasi sempre nei miei lavori. Se sei in artista politico è facile diventare didattico: io sono molto attento a questo aspetto, non voglio che il mio lavoro sia a senso unico. Io vorrei che la gente si ponesse delle domande, che si interrogasse come faccio io. Domande che fanno riflettere, come il titolo del mio libro: You always step into the same river, perché se metto un piede nel Tevere, io lo sto mettendo nelle stesse acque in cui è cresciuto Cesare, non è solo un fiume, è tutto il mondo, la cultura, la storia che è nata e cresciuta intorno ad esso. Lo stesso mi accade se mi immergo nello Yamuna. Perché l’acqua è la nostra storia, l’acqua ha memoria». 
Maria Teresa Capacchione

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