12 luglio 2016

Di cosa vive un performer?

 

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Come è possibile parlare di commercializzazione un’opera d’arte che non ha nulla a che fare con l’oggetto, ma è totalmente effimera, perché vive solo del suo processo e nel momento dell’esperienza?
Le radici puramente concettuali di un fenomeno come quello della performance si sono diffuse in tutta la pratica del contemporanea dagli anni 60 ad oggi, modificando l’idea stessa di arte, e con questa l’idea di collezionismo. Come ha affermato la stessa Marina Abramovic: «i collezionisti devono rieducare  se stessi in modo da rendere l’idea che sta dietro la realizzazione di un’opera più importante dell’oggetto stesso». E questo processo è iniziato da tempo, e molti appassionati hanno iniziato a comprare azioni, che potrebbero essere messe in scena nel proprio salone.
Questa fetta di mercato però copre meno dell’un per cento insieme a video e altre pratiche concettuali. Come fa quindi un artista performativo a vivere della sua arte?
Oltre alla possibilità di vendere materiale legato alle performance, come video, fotografie e cataloghi che la documentano, le performance possono essere commissionate, o può esserne pagata la messa in atto. 
Nei mesi passati abbiamo visto la performer più famosa del mondo, l’Abramovic, diventare ancora più famosa grazie alla sua incursione nel mondo ultrapop del rapper e producer americano Kanye West, abbiamo assistito alla riapertura della Tate che ha dedicato un’area della sua rinnovata struttura alle azioni dal vivo, molti artisti stanno entrando nelle collezioni dei musei, ma per la loro natura effimera le performance non riescono ad essere incasellate in rigide strutture economiche e legali. Esemplare a questo proposito la transazione avvenuta tra il Turner Prize Tino Seghal e il Moma nel 2009 per la sua opera Kiss, che vede due interpreti rimettere in scena tutti i baci famosi della storia dell’arte. Un lavoro che è stato acquistato per 70mila dollari, e che ha visto implicati l’artista, il rappresentante dell’acquirente e un notaio, che ha registrato la conversazione tra le due parti, che funge da contratto. Le opere di Seghal non possono essere documentate, devono essere messe in scena solo da persone che lui ha istruito, e queste devono essere retribuite, e se il compratore vuole rivendere deve essere stipulato lo stesso tipo di contratto verbale. Ecco perché Glenn Lowry, direttore del Moma ha definito questa come la transazione più complicata a cui abbia mai assistito. 
La performance è sempre più al centro delle cronache, si è avvicinata ad un pubblico più ampio grazie ai numerosi festival, le biennali, le mostre nelle gallerie e spazi dedicati solo a questo medium. Come l’esperimento della piccola galleria madrilena La Juan Gallery, dove espongono solo artisti performativi di ogni genere, dove nulla si vende, ma viene pagato un biglietto di ingresso. Perché non si vive di solo mercato. (Roberta Pucci)

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