12 luglio 2016

A tu per tu/1

 
Luca Pancrazzi e Pietro Gaglianò L’artista e il critico, si conoscono da anni e si confrontano da anni. L’ultima mostra di Pancrazzi è occasione per riprendere il discorso

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La personale di Luca Pancrazzi alla galleria Andrea Caratsch di Saint Moritz ha la vertigine del volo e della pittura come condizione dello sguardo. Le grandi tele riassumono la passione di Pancrazzi per la sperimentazione del linguaggio e per la visione critica di ogni paesaggio culturale. La mostra è occasione per una conversazione con l’artista (Pietro Gaglianò).
“Occidente esotico” è un titolo che costituisce una chiave interpretativa molto diretta per la lettura della mostra, con una definizione dello sguardo come variabile culturale e politica. La mostra, infatti, apre una riflessione (come indicato in un tuo scritto in catalogo, che affianca il bel saggio di Mirella Carbone) sulla rarefazione della centralità di entrambi i termini, “occidente” ed esotico”, e su una loro certa sovrapponibilità. Puoi precisare qual è la qualità descritta dal concetto di “esotico”? E dove si trova, mentalmente, l’”occidente” al quale ti riferisci?
«Il ribaltamento delle coordinate, come fossero parte di una carta geografica stampata e letta a rovescio, ribaltata di 180 gradi, è il mio esercizio di equilibrio anti-geostazionario praticato sin da quando ho iniziato a viaggiare. Quando viaggio sono teso e accordato nella lettura frontale e laterale delle densità oltre la fissità dell’orizzonte stradale, alla ricerca di un accordo verso le distanze e le rarefazioni con tutto il mio organismo coinvolto. Questo è sempre accaduto, ma dopo la prima metà della mia vita ho partecipato con coinvolgimento allo sgretolamento di tutto quello che l’organismo aveva metabolizzato nella prima parte. Sto parlando di un senso di scivolamento continuo verso un nuovo infinito, destino, che si aggrappava alle note anch’esse scivolose delle composizioni per nastro magnetico di Edgar Varese, e preparava il mio organismo a un senso di straniamento che ancora non trova confini. L’abbandono continuo delle sponde di approdo, lascia e permette solo la navigazione a vista, empirica e metafisica, per le nuove geografie emotive e sentimentali. È un abbandono ritmato, teso alla ripresa del controllo, in un ritmo di veglia/sonno ribaltato e ribaltabile, che ha continuamente esteso il senso di esotico alle parti più vicine ed intime. Questo esercizio della proiezione verso la distanza mi ha permesso di navigare in acque prossime come fossero esoticamente irraggiungibili. Come scrivo nel testo che citi, l’occidente siamo oggettivamente e storicamente noi, siamo noi la terra dove il sole tramonta, il nostro sole è occidente, e i confini non ci sono più».
Luca Pancrazzi, Occidente esotico, vista della mostra

 

Il paesaggio incantato dell’Engadina, protagonista delle opere in mostra a Saint Moritz, sembra molto lontano dagli spazi urbani (o dai paesaggi intimi del tuo studio) che sono centrali nella tua ricerca. Come si pone questo passaggio?
«I soggetti sono sempre stati un pretesto, per la pittura, un compendio dell’irraggiungibilità di uno stato in permanente trasformazione che preferisce allontanarsi piuttosto che mantenersi in spazi confortevoli. Ho frequentato molto l’Engadina per motivi di lavoro e ho trovato luoghi complessi, non solo meravigliosi e semplici, non selvaggi e romantici, ma estremamente lontani per la loro metafisica perfezione. Da osservare e non solo ammirare estaticamente. I contrasti sono forse ovvi tra vette e cielo, tra ombra e luce, tra una certa fatica fisica nell’adattamento al luogo (per me, che si può dire, provenivo dal livello del mare) e la facilità con cui puoi raggiungere qualsiasi vetta o profondo abisso».
 
Luca Pancrazzi, Occidente esotico, vista della mostra
Autentica e definitiva protagonista del tuo lavoro è sempre la pittura, come tentativo, come esercizio su cosa è possibile arrivare a figurare ed esprimere, come sfida al limite del mezzo stesso. Qual è stato il campo di esplorazione per le opere di questa mostra?
«Ho approcciato il soggetto come fosse un soggetto normale, approcciabile ma pur sempre soggetto ad una trasformazione metabolica, anche da ribaltare e sottoporre ad analitica distruzione: tutto questo ma sempre un soggetto per la ricerca pittorica. Potrei dire anche che ho approfondito aspetti della pittura e affrontato il rapporto con l’immagine, tra lavoro fotografico e lavoro pittorico, spostando la fatica e il lavoro più sull’aspetto dell’impegno fisico, scultoreo, che su quello dell’immagine pura e bidimensionale. Tutta la fisicità dei massicci raffigurati è penetrata nelle pennellate che scavavano i fianchi e le valli, con una fatica che il pittore conosce raramente, che assomiglia più a quella di chi deve scavare la materia per trovare i piani di rappresentazione aiutandosi con strumenti per togliere, strumenti di qualsiasi tipo, appunto. Ho visto ed ho invidiato anche molte rappresentazioni romantiche e moderne dei viaggiatori o dei pittori rifugiati in Engadina, ma nel mio percorso ho provato a spostare gli obiettivi».
Luca Pancrazzi, Occidente esotico, vista della mostra
Non è il primo caso in cui il tuo esercizio di pittura tenta una pratica diversa da quella tradizionale. Ci sono molte opere che hai realizzato “per via di levare”, e molti progetti che prendono forma come installazioni, ma il rapporto dell’occhio con le cose, quindi una qualità pittorica della creazione artistica, è sempre preminente. Si può dire che anche quando ricopri oggetti con frammenti di vetro stai in un certo senso dipingendo con lo sguardo?
«Ho dipinto molti quadri con tecniche classiche e costruzioni corrette della stratificazione e della sovrapposizione dei fondi e dei colori per arrivare a trovare quello che cercavo. Ho dipinto anche quadri che non hanno tenuto conto di nessuna regola, dove ho creato e pianificato le nuove regole che hanno costituito la base del nuovo gioco. In particolare i quadri bianchi, monocromi, dipinti su tela naturale sono l’esplicazione migliore di questo atteggiamento di completa libera invenzione che ha permesso di riscrivere le regole. Nascono appunto dalla possibilità che mi sono dato di dipingere e terminare un quadro nello spazio della cosiddetta preparazione del fondo. In pratica un quadro bianco monocromo è finito quando lo stesso quadro dipinto con tecniche normali non avrebbe ancora visto l’inizio.
Le sculture coi vetri sono esattamente una emanazione dello sguardo sul mondo che traduce in pittura la luce che definisce le forme ed i colori. Mi ritrovo bene nella definizione di Pittore in tutte le sue sfaccettature, estendendo la definizione allo sguardo che anche ad occhi chiusi osserva il mondo esterno o alternativamente quello interno sovrapponendo una visione sull’altra. La pittura comporta il lavoro completo dell’organismo senza esclusione di organi, la metabolizzazione del mondo passa attraverso il filtro umano e viene espulsa rielaborata da tutti i fori disponibili».
Luca Pancrazzi, Occidente esotico, vista della mostra
“Occidente esotico” costituisce un punto di svolta? Questo lungo lavoro come influenza la tua ricerca di ora? E quali sono le nuove destinazioni?
«Ogni mostra importante conclude un ciclo di crescita organica ed assomiglia ad una svolta.
La mostra è la tesi pubblicata di questa ricerca ed è solo il punto di partenza della nuova.
Dopo ogni mostra alla quale si dedica un lungo e approfondito percorso, la parte pigra di noi potrebbe prevalere e lasciarsi accontentare di ciò che ha raggiunto applicando la regola nuova all’infinito. Invece, fortunatamente, un movimento positivo di tradimento continuo prevale sulle certezze e diviene prevalente il nuovo senso di insicurezza di colui che lascia il certo per l’incerto, di colui che si decide a partire per altre destinazioni esotiche senza confini».

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