14 luglio 2016

Il marketing? Più social che altro

 
Al Teatrino di Palazzo Grassi Laura Miller, Marketing Director al Guggenheim di NYC, racconta le linee guida delle strategie del colosso museale. Come farne tesoro in Italia, e non solo?

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Si sente dire spesso che i social network sono l’aspetto più importante dell’area redazionale. Si sente parlare spesso di classifiche in cui i musei prendono parte attivissima alla vita comunitaria della rete, tra facebook, instagram, twitter. Ma quanto è importante per un museo un  sito ottimamente consultabile? Quanto sono necessari i contenuti speciali? Quanto servono hashtag e iniziative in rete? 
Dopo l’incontro con Laura Miller, al Teatrino di Palazzo Grassi di Venezia, si potrebbe dire che sono tutto. L’occasione ci è data grazie alla “Summer School Italia Innovation Program”, iniziativa organizzata da Innovation Foundries e volta a far interessare giovani menti imprenditoriali e innovative al futuro del Made in Italy, e Palazzo Grassi anche quest’anno rappresenta il settore “Arts and Culture”.
E ovviamente quale poteva essere il simbolo del marketing museale se non una delle realtà più blasonate, cliccate e visitate del mondo? Parliamo del Guggenheim di New York, per il quale la Miller lavora da più di vent’anni come direttrice dell’area marketing. Figura consolidata nell’organico del museo, Miller è approdata nell’edificio di Frank Lloyd Wright in una epoca decisamente non sospetta per le strategie di promozione che conosciamo oggi, ma che attualmente sono in grado, senza ombra di dubbio, di richiamare nella sede del Guggenheim della Grande Mela l’80 per cento di visitatori stranieri, turisti, mentre sono in percentuale molto minore i newyorchesi o gli appartenenti all’area metropolitana.
 
Guggenheim Museum, Abu Dhabi
Andiamo per gradi. Secondo il prospetto che traccia Miller, non si può prescindere dalle strategie di marketing di un museo prescindendo dalla sua stessa vita. E il Guggenheim, di partenza, è stato forse la prima icona (ancora verdissima) di museo non solo come contenuto, ma anche come contenitore. É cambiata la fruizione, è cambiato il pubblico, ma la spirale-ziggurat bianca di Wright al 1071 della Fifth Avenue è uno dei dieci posti più fotografati al mondo. Un museo brandizzato, che la sua diffusione in tre angoli del globo (dalla collezione Peggy Guggenheim di Venezia al futuro museo di Abu Dhabi che si aprirà sotto il segno architettonico di Frank Ghery, a quello di Bilbao, aperto nel 1997 sempre sotto Gehry, e la futura sede di Helsinki) hanno contribuito a renderlo un faro per “conoscere”, o quantomeno vedere, la più grande arte moderna e contemporanea, e l’architettura più prestigiosa. E checché se ne dica, già di partenza questi fattori aiutano non poco le strategie di marketing e di comunicazione, non tanto nelle sue mire di espansione quanto nell’aura di celebrità che si può assecondare a queste istituzioni.
Guggenheim Museum, New York
Ma cos’è il marketing, per un museo? Non è particolarmente differente da quello che è in altre sedi: si tratta di pubblicità mirata, di pubbliche relazioni e di una rete complessa di competenze che partono dalla direzione della comunicazione (nel caso del museo newyorchese) e si ramificano in molteplici sottogruppi che attingo alla necessità primaria di far parlare di se. 
L’impressione, detta così, è che per certi versi l’ufficio marketing superi la direzione. «Non è esattamente così, e non abbiamo nemmeno un lavoro “comune”, ma quel che è certo è che il settore digitale, per un museo, sta assumendo sempre più importanza», ci spiega Miller.
Interessante, e per certi versi consolante, è sapere che anche nella Grande Mela si sfiora la cronica mancanza di personale che viviamo in Italia: «Nel nostro dipartimento il numero di figure è abbastanza esiguo, per una grande quantità di lavoro quotidiano da fare».
Già, il lavoro da fare: quello che ha reso i musei non tanto un parco di divertimenti, o almeno non più, quanto un terreno di ascolto delle esigenze dei visitatori e della loro voglia di “fare esperienza”: con i visori per la realtà aumentata, con la possibilità di “liberarsi” dei più piccoli che possono fare corsi, avere baby-sitter temporanee che insegnano i principi e i rudimenti della pittura, a diversi livelli e a seconda dell’età e anche – e forse soprattutto – di non sentirsi spettatori passivi, ma protagonisti. E qui entra in gioco la fortissima componente social: «A volte abbiamo progetti molto popolari, altre volte sono vere e proprie scommesse, ed è specialmente qui che si gioca la partita: bisogna tenere sempre conto che il pubblico ha bisogno di capire, anche quello che considera “difficile”», spiega Miller.
Guggenheim Museum, Bilbao
I duri e puri delle mostre, della qualità contro la quantità di informazioni e possibilità di fruizione, probabilmente, sono rimasti in pochi. E alla domanda “Se un visitatore non ha dimestichezza con il web e la tecnologia che può fare in un museo e cosa può il museo per lui?”, la risposta non solo appare un po’ scontata, ma anche un po’ antiquata: si possono sempre leggere le didascalie, sfogliare le pubblicazioni, i cataloghi. E, aggiungiamo noi, si può entrare in quel bookshop che per anni ha tenuto banco come attrattiva e che oggi è decisamente superato dagli hashtag e dai QR che si leggono con lo smartphone alle didascalie.
#MuseumWeek, #MuseumSelfie, #FrankLloydWrightFriday (che ogni venerdì pubblica una foto realizzata dal buon occhio di qualche visitatore intorno all’architettura e che ha battuto ogni record con un’immagine da quasi 12mila like) o ancora il #MusEmoji Day, ovvero come le icone dei social ricordano gli elementi strutturali dell’edificio, sono solo alcune delle iniziative virtuali che il museo offre al suo pubblico. Vi sembra tutta fuffa? Peccato che anche in questo caso i numeri smentiscano: su Instagram i followers del Guggenheim raggiungeranno presto il milione (e attualmente su questa app il museo è il più seguito al mondo, sbaragliando la concorrenza serrata di altre fantastiche istituzioni della Grande Mela, dal MoMA al Metropolitan passando per il Whitney, potenza di fuoco specialmente dopo il trasloco che però raggiunge solo i 383mila seguaci attuali, così come il New Museum. 
#FrankLloydWrightFriday
A tutto si devono aggiungere le collaborazioni con Google Art Project, di certo un altro canale non indifferente e non poco selettivo nei confronti dei “clienti”, che in questo caso non solo ha permesso la visualizzazione in alta risoluzione delle opere della collezione, ma anche il celeberrimo tour a 360 gradi. 
E allora, cosa può un museo “normale” contro tutto questo successo? Tanto per cominciare, forse, prendere uno spunto fortissimo e rafforzare il suo organico non tanto in fatto di press office, segretariato, guardianìa o simili “vecchiezze”: il museo deve essere diffuso. E stavolta non parliamo di geografie fisiche, ma di luoghi mentali dove un logo può visualizzare un’immagine mentale e determinare una tappa in un viaggio, un sogno, o un ricordo ingombrante. Come farlo? «La questione temporale, per una buona strategia di marketing, non è secondaria, ma varia da un’istituzione ad un’altra: c’è chi “comunica” in pochi secondi, altri pianificano. Dipende dalle situazione, e dipende dal “come” lo si fa». Un valore imprescindibile anche se si pensa al “pubblico” che in Italia ancora tiene banco, e spesso non mastica digitale. Ma l’importante, come ricorda Miller, è avere ben chiari gli obiettivi, tra cui rientra capire perfettamente la motivazione che porta un visitatore a sganciare 8, 10, 12 o 18 euro per un biglietto. Dettata anche, ora come non mai, da uno “status-social”più che symbol. 
Matteo Bergamini

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